giovedì 25 aprile 2013
Tempo spredato. Davide Giacalone
Non solo in autunno l’Italia non sarà in bancarotta, come dice un irresponsabile Giuseppe Grillo, ma la condizione in cui si troverà a lavorare il nuovo governo non sarà difficile come quella che abbiamo alle spalle. Il lungo rigore dei conti pubblici, dal 2011 in avanzo primario, e il migliore risultato europeo in termini di deficit, consentono alla Commissione europea di chiudere la procedura d’infrazione, aperta contro l’Italia. L’avvicinarsi del tempo delle elezioni tedesche, proprio nel prossimo autunno, accorcia i tempi oltre ai quali sarà possibile tornare a ragionare seriamente d’Europa, senza la miseria degli egoismi dialettali. I nostri problemi restano, ma l’orizzonte è meno scuro delle giornate che abbiamo attraversato. Sempre che un governo nasca e sia solido, con una maggioranza che non abbia la fregola delle urne e non dipenda da chi fomenta la piazza per espugnare il palazzo.
Lo spread, il differenziale fra i tassi d’interesse nostri e tedeschi per mantenere il debito pubblico, è molto sceso e continua a scendere. Qualcuno, ieri, ha parlato di “effetto Giorgio”, riferendosi alla rielezione di Napolitano. Una totale sciocchezza, visto che quell’indice è sceso durante tutto il corso della tragicommedia quirinalizia. Ieri, ad esempio, in piena incertezza sull’esito della crisi, gli spread sono scesi notevolmente, in tutta l’area dell’euro, ad eccezione del Portogallo (-6 da noi, -8 in Spagna, -7 in Irlanda, -4 in Francia e così via, fino al -13 della Finlandia). E’ ardito sostenere che ciò avviene per ragioni nazionali.
Il dio-spread se ne sta buono per ragioni che non riguardano la nostra politica, ma neanche i numeri della nostra economia. E’ il caso di ricordare che fino alla crisi del debito greco, nei primi mesi del 2010, lo spread se ne stava sotto i 100 punti base (con una parentesi di poco superiore, al comparire dei problemi sul mercato statunitense, fra le seconda metà 2008 e la prima 2009, comunque sotto i 200). Quando andò in crisi il governo Prodi (gennaio 2008), o quando nacque quello Berlusconi (maggio 2008), ebbe solo un trascurabile fremito. Il nostro debito pubblico era, allora, più patologico di quanto non lo sia stato successivamente, perché in tempi a noi più vicini è assai cresciuto quello degli altri. Lo spread cominciò la sua corsa nell’aprile del 2010 e divenne travolgente nella seconda metà del 2011, quando toccò i 552 punti base. Ma si trovava a 537 anche nel luglio del 2012, con il governo Monti da mesi insediato. Sono le decisioni della Bce, sugli strumenti anti-spread, che gli spezzano le gambe, non altro. Aggiungo solo che questi andamenti non riguardano solo l’Italia, ma l’insieme dei paesi europei presi di mira dalla speculazione, quelli, quindi, dove i mercati mettevano alla prova la tenuta dell’euro.
Questa storia, da noi tante volte ricostruita a vanvera, con ottusa faziosità, ha fatto dire a operatori e osservatori che il problema è l’euro e la soluzione non può che essere europea. Dalla federalizzazione del debito alla sterilizzazione della speculazione. Ne abbiamo scritto tante volte, quando gli altri di dilettavano a usare quell’indice come arma contundente. Pericolo cessato? Neanche per idea, perché la Bce non può surrogare la debolezza istituzionale e i rimedi approntati non sono poi così solidi. Si deve ancora lavorare.
Posto ciò, però, l’Italia ha fondamentali migliori di altri e una forza patrimoniale superiore a quella di altri. Abbiamo una recessione più lunga e pesante di quella degli altri a noi paragonabili, con conseguente crollo della domanda e dilagare della sfiducia. Abbiamo un drammatico ritardo nella ripresa, indotto anche dal rigore finanziario cui ci siamo sottoposti. Chi governerà nei prossimi mesi, quindi, potrà trarre vantaggio dall’allentamento di quel rigore, finalmente reso possibile. Il che non significa affatto che si potrà tornare alla spesa spensierata, ma che si potranno accompagnare le riforme strutturali con l’immissione di un po’ d’ossigeno. Perché è quella la nostra vera e grande colpa: al debito pubblico pregresso e crescente (anche non per nostra responsabilità, ma per la dinamica dei tassi d’interesse) abbiamo sommato anni d’inerzia e mancate riforme. Colpa che, tanto per evitare inutili fiammate di tifoseria, coinvolge la destra, la sinistra e il governo Monti. Accompagnando le aperture del mercato, la fine (almeno la riduzione drastica) delle rendite, e i tagli alla spesa inutile (quindi non lineari, ma strutturali) con maggiore liquidità e minore pressione fiscale possiamo propiziare una risorgenza economica nella quale molti hanno smesso di sperare.
Oggi si può. Sprecare questa finestra, o non aprirla per mancanza di peso specifico nel mercato politico europeo, non sarebbe uno spreco, ma un delitto.
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giovedì 18 aprile 2013
Cineserie Telecom. Davide Giacalone
La sorte di Telecom Italia scatena periodicamente un frullato misto di furbizia e irrazionalità. Ora è il fantasma cinese ad agitare le paure. La cosa grottesca è che nel mentre è necessario avviare dismissioni di patrimonio pubblico, per ridurre il debito e rilanciare gli investimenti, l’unica cosa di cui tutti parlano è l’esatto contrario: investire soldi pubblici per riprendersi la rete, che già era pubblica ed è stata colpevolmente svenduta. Si ragioni su tre punti: 1. il fallimento di chi esercita il controllo su Telecom; 2. il valore strategico della rete; 3. l’interesse nazionale (tutelato dalla golden share), in relazione all’ingresso di nuovi soci.
1. Il fallimento sta nel tandem della metà e del doppio: a. il valore di Telecom, in Borsa, è pari (12 miliardi) alla metà dell’indebitamento (23); b. la finanziaria di controllo, Telco, ha in carico le azioni a 1.2 euro, quindi al doppio di quel che valgono oggi. I protagonisti italiani di quell’avventura (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo) hanno fallito la loro missione, consistente nel rimettere sotto controllo un debito mostruoso, creatosi sia con la scalata dei capitani coraggiosi che con il riacquisto delle azioni Tim, e far valere l’italianità della società. Il socio straniero, la spagnola Telefonica, ha fallito perché incapace sia di contare che di prendere il controllo, mancandogliene i soldi. Tale stallo non può continuare, perché la società affonda.
2. E’ opinione diffusa che il valore nazionale di Telecom risieda nella sua rete fissa. Si ritiene che se di Telecom si dovesse “perdere il controllo” sarebbe saggio ricomprarla. Tesi tanto forte quanto inconsistente. La rete è funzionale alla redditività dei servizi e all’effettività della concorrenza. E’ stata tenuta dentro Telecom per favorire la prima cosa, ma non è servito. Mentre alla seconda dovrebbero provvedere le norme e le autorità di controllo. Invece sembra che la rete sia una specie di depandance della sovranità nazionale, per la qual cosa vale quanto si trova appresso. Intanto un dettaglio, solitamente ignorato: la struttura della rete è già in gran parte straniera, e in quota significativa cinese. Perché a costruirla è una società che si chiama Huawei, cinese, appunto, che in Italia ha 700 dipendenti e un importante centro di ricerca a Milano, sulla tecnologia microwave. Gli altri che ci lavorano sono i tedeschi della Siemens. Di italiano è rimasta Sirti, con 4mila dipendenti e che esprime soddisfazione se i lavori li prende assieme a Huawei (come nel caso Wind). Ora, se la rete è fatta da stranieri mi spiegate in cosa consiste l’italianità del controllo strategico? Nella titolarità societaria? Nel corso degli ultimi lustri la rete si è molto impoverita, sicché farla tornare pubblica significherebbe averla venduta a poco quando valeva molto e ripagarla molto ora che vale poco. Epico risultato. Infine c’è l’aspetto sicurezza. Un tempo sarebbe stato decisivo, ma in quel tempo non c’era la globalizzazione e altri rimediavano alla debolezza italiana. Ora è sufficiente instaurare un controllo non operativo, in capo ai ministeri interni e difesa. La separazione societaria, avviata da Telecom, è cosa buona, ma dovrebbe preludere ad un investimento comune, con altri operatori e con fondi infrastrutturali, piuttosto che statale.
3. Telecom era una grande multinazionale italiana. I “boiardi” l’amministravano assai meglio dei corsari. Omnitel era italiana, poi passata con Vodafone, quindi inglese. Wind è stata una corbelleria dell’Enel, poi passata agli egiziani e da loro ai russi di Vimpelcom. H3G è cinese di Hutchison Whampoa, avendo acquistato Andala, che era italiana (creta da Renato Soru e … Franco Bernabè). L’italianità da chi dovrebbe essere difesa, da finanzieri perdenti dentro una finanziaria vincolata agli spagnoli, che governa una società i cui debiti doppiano il valore di Borsa? Semmai si deve usare la golden share per vincolare ogni passaggio di proprietà al rispetto di impegni relativi agli investimenti. Modernizzando la rete e senza lasciare zone scoperte. E’ quello che l’autorità brasiliana, Anatel, ha imposto a Tim Brasil, quindi un vincolo che i nuovi acquirenti, se arrivassero, si troverebbero già in pancia. Facciamo che l’Italia meriti il rispetto che il Brasile impone per sé.
Questo è l’interesse nazionale. Dispiace che i cinesi si prendano Telecom? A me dispiace che se la prenda chiunque, essendo una bandiera e un valore italiani. Fatta con i soldi degli italiani. Ma sono anni che la società viene depredata e declassata. La colpa è degli italiani, da noi descritti e denunciati per tempo. Potevamo essere colonizzatori e siamo stati colonizzati, ma solo perché nostri connazionali hanno collaborato al disastro. Arricchendosi. Se arrivano capitali dall’estero salutateli con rispetto, semmai s’impongano condizioni e si cerchi di farne un esempio per il sistema. Le telecomunicazioni non sono l’unica infrastruttura decisiva sulla quale occorrono investimenti e capitali internazionali.
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domenica 14 aprile 2013
Al Colle, oh Prodi. Davide Giacalone
Presso i bookmekers londinesi è ben quotata l’ipotesi che Romano Prodi sia il prossimo uomo del Colle. Hanno ragione. L’ipotesi è concreta e l’interessato ci lavora alacremente. Altri nomi sarebbero preferibili, ma senza un accordo chiaro, politico e alla luce del sole, fra il Pd e il Pdl, diventano poco probabili. Quello di Prodi, almeno per gli scommettitori, ha un pregio: è probabile. Siccome noi non ci giochiamo un paio di sterline, ma il futuro della Repubblica, ci permettiamo di aggiungere che è anche fra i peggiori che si possano immaginare. Forse il peggiore.
Non credo che lo sia perché inviso al centro destra (fu questo schieramento a portarlo ai vertici della Commissione europea). E’ il peggiore anche per la sinistra. Eppure è probabile, perché se la politica continua ad avere paura di sé stessa, se non opera usando la razionalità e praticando la responsabilità, rimpiattandosi sotto le coltri del propagandismo e della viltà, ecco che, dalla quarta votazione in poi, il lavoro che stanno facendo in diversi, a cominciare da Nichi Vendola, sposterà qualche parlamentare pentastelluto e, seguendo il “metodo Grasso”, avanzerà al grido di: “al Colle, miei Prodi”.
Omessa ogni considerazione su simpatie e antipatie, e tralasciate le menate nuoviste e anticastali (l’uomo dell’Iri e della sinistra democristiana non è certo il nuovo che avanza, semmai il vecchio che disavanza), ci sono due ragioni per cui quella è una prospettiva masochista. La prima: Prodi è l’unico uomo della sinistra che non solo è riuscito a battere Silvio Berlusconi, ma anche a fondare dei governi su quelle vittorie. E’ un merito, dal punto di vista della sinistra. Gliecché, però, con quel nome si strascica la storia del bipolarismo già morto, rinvigorendo la radiazione fossile di una guerra civile a bassa intensità. Questo è un punto delicatissimo: nei sistemi presidenziali, o semipresidenziali, con elezione popolare, è possibile avere presidenti espressioni di minoranze elettorali (quasi tutti i presidenti francesi lo sono stati, dopo De Gaulle); ma nel nostro sistema costituzionale no, perché radicalmente diversa è la legittimazione e il ruolo. Diventa pericolosissimo incaponirsi a non prendere atto del voto degli italiani. Vado oltre: più è frammentato il voto più il Colle dovrebbe essere sede di coabitazione. Altrimenti il sistema si sfascia.
Un sistema, aggiungo, che credo vada cambiato. Ma che sarebbe avventuroso violentare. Ci torneremo, ma lasciatemi ricordare che fra gli e-book di Libero è disponibile “La Guerra del Colle”, dove su queste cose si riflette con profondità.
La seconda ragione è interna alla sinistra: un minuto dopo avere portato Prodi al Quirinale nella sinistra esploderebbe uno scontro rabbioso e cieco. A Pierluigi Bersani verrà rimproverato di avere massacrato la storia e la memoria del fu partito comunista, consegnandolo ostaggio di alieni che ne hanno occupato la reincarnazione. L’accusa sarebbe in gran parte ingiusta, perché la colpa ricade su quella dirigenza comunista che, dal 1989 in poi, non ha trovato tempo, forza, cervello e coraggio per rimeditare e rimediare una storia di errori. Ma tant’è, il conto verrebbe presentato all’imitatore di Crozza.
Da quel momento partirebbe una delirante corsa identitaria, il cui risultato sarebbe l’esaltazione degli estremismi moralistici, che comporta la soppressione degli spazi politici. Già, perché non solo l’arte, ma la sostanza stessa della politica è il compromesso. Che ho detto?! Ma come, l’immondo compromesso? Esattamente. E faccio osservare che senza compromesso non c’è matrimonio che non finisca in omicidio, famiglia che non diventi luogo di stragi, amicizia che non porti alle coltellate. Grazie al cielo le persone normali hanno una naturale predisposizione al compromesso. Sarà per questo che le persone normali scarseggiano, nella politica che quotidianamente s’esibisce.
Tornando al Colle: Pd e Pdl si giocano la cotenna, assieme, fra il primo e il terzo scrutinio. Da lì in poi gli uni cercheranno di fare la pelle agli altri, alleandosi con il proprio scuoiatore. Se al Quirinale va Prodi, potrà aprirci una conceria.
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mercoledì 10 aprile 2013
Italia, anatomia di un delitto

L’Italia sta morendo. Lo dicono i numeri. È come la vittima di un delitto, abbandonata sul selciato in una strada secondaria e buia dove i passanti, gli altri Paesi di Eurolandia e del G8, fanno finta di non vedere. Ma tra loro si danno di gomito con aria nauseata. «Ma guarda che roba! Non si può più andare in giro! Che tempi!». Non c’è nessun buon samaritano. Anzi, fra di loro si nasconde colui che l’ha prostrata. O comunque il mandante dell’agguato a base di austerity che l’ha lasciata tramortita.
Come se fossimo in un giallo, facciamo finta di essere detective della Special Victims Unit e assieme ai medici legali (e agli psicologi) cerchiamo di capire dalle ferite chi può averle causato tanta sofferenza senza provare il minimo rimorso.
Questo è il pil italiano degli ultimi 12 anni. Praticamente una parabola. Lasciate perdere il fatto che nel 2012 sia calato del 2,4%, è solo l’ultima stilettata. Praticamente dall’inizio della crisi, cinque anni fa, siamo tornati al punto di partenza, cioè al 2000. Casualmente, dal terzo trimestre 2011 – cioè dall’avvento del governo Monti – quel pur modesto recupero di salute che c’era stato nell’anno precedente, è stato compromesso da un’overdose di tasse, licenziamenti, chiusure di aziende, spread e credit crunch.
Ma cosa ha ridotto la vittima in fin di vita? Che cosa ha compromesso il suo organismo? È stato solo un fenomeno di violenza oppure le è stato inoculato anche un virus, quello più pericoloso, quello della decrescita? Osserviamo un’altra radiografia, quella della produzione industriale. In un solo anno è stato registrato un crollo senza precedenti. Nel 2012 è arretrata del 6,7% tornando ai livelli del 1990. Nei primi due mesi del 2013 è stato perso un altro 3,7%. Dov’è che l’emorragia sta devastando le funzioni vitali? Nel comparto dei mezzi di trasporto, della metallurgia e della lavorazione dei prodotti petroliferi. Ma anche la fabbricazione di macchinari e di beni strumentali è in pericoloso arretramento. Da oltre un anno e mezzo ogni mese la produzione industriale italiana perde un pezzo. ecco, un po’ alla volta si sta smontando il tessuto connettivo di un Paese, i suoi gangli vitali.
E mentre sulla pelle senti il dolore dei pugni, gli squarci delle ferite, al tempo stesso il tuo cuore e i tuoi polmoni sembrano volersi fermare. Il sangue si coagula.
Quindi non vi deve stupire che solo lunedì abbiano portato i libri contabili in tribunale 58 aziende. I dati Cerved dicono che nel 2012 si sono arrese 12.442 imprese (più di mille al mese, circa 34 ogni giorno). Un dato in aumento del 2,3% sul 2011 e addirittura del 32% rispetto al 2009, quando il pil italiano aveva subito un brusco arretramento a causa della crisi dei mutui subprime importata dagli Stati Uniti.
Però, è troppo facile parlare di crisi. «C’è la crisi, tutti soffrono la crisi, non siamo solo noi a starci dentro». A febbraio in Francia la produzione industriale è cresciuta dello 0,7%, in Germania dello 0,5%. Non tutti i presenti sulla scena del crimine sono innocenti allo stesso modo.
Ma un’indagine non sarebbe tale se lasciasse in sospeso anche i risvolti interiori, le motivazioni psicologiche che possono aver portato la vittima a infilarsi in quella situazione di pericolo. E, soprattutto, perché non sia riuscita, non abbia potuto (o voluto) tirarsene fuori.
Quello che vedete è il dato più recente sulla disoccupazione. L’11,6% della forza lavoro non ha un impiego. Sono 3 milioni di persone. In un anno sono aumentate di 400.000 mila unità. Sono un esercito espulso dal processo produttivo. Sono l’altra faccia del calo della produzione industriale.
Ma tanto l’impiegato quanto l’imprenditore sono sulla stessa barca. Si pongono sempre le stesse domande. Che con la stessa sorda indifferenza non ricevono una risposta. «Perché son condannato a questa vita? Che cosa ho fatto di male per meritarlo? Quali colpe ho?». Ecco che cosa ha portato la nostra vittima-Italia su quella strada buia della crisi dove è stata aggredita con violenza. Quel senso di inadeguatezza e di nausea che rende più vulnerabili.
Nel 2012 i licenztiamenti hanno superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% rispetto al 2011 (quando sono stati 901.796). Il ministero del Lavoro non mente: nel solo ultimo trimestre del’anno scorso sono state licenziate 329.259 persone, con un aumento del 15,1% sullo stesso periodo 2011.
Ma quando sei più debole, quando le tasche sono vuote, anche l’ultimo allibratore si rifiuta di piazzare quella che potrebbe essere la tua scommessa vincente. E non lo può fare perché il banco rischia di saltare. A febbraio i prestiti al settore privato hanno registrato un calo dell’1,3% su base annua. I dati della Banca d’Italia non lasciano scampo: i prestiti alle famiglie sono scesi dello 0,7%, mentre quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,6%. Certo, le banche italiane sono sedute su oltre 125 miliardi di crediti andati in sofferenza perché l’imprenditore se non vende le proprietà non ce la fa a onorare gli impegni, perché con un solo stipendio in famiglia pagare il mutuo è più difficile. Forse, se le banche non si fossero riempite con 351 miliardi di titoli di Stato italiani e avessero diversificato un po’ di più, magari qualche altro finanziamento avrebbe potuto essere concesso. Ma se le nostre banche non avessero comprato i Btp in misura tripla all’intervento della Bce, che ne sarebbe stato dello spread con il Bund tedesco.
È come un cane che si morde la coda. È come la legge di Murphy: se le cose possono peggiorare, lo faranno. Il reddito disponibile per nucleo famigliare in valori correnti è diminuito nel 2012 del 2,1%. Tenendo conto dell’inflazione, il potere di acquisto delle famiglie consumatrici è calato del 4,8%. Nel solo quarto trimestre, quest’ultimo dato è precipitato del 5,4% nei confronti dello stesso periodo del 2011. Non si produce, non si lavora, non si guadagna, non si consuma E poi il circolo vizioso riprende e ogni volta sembra di essere scesi più in fondo. Perché la fine di questo inferno non esiste. La fine di questo inferno non è la coppia di suicidi che decide di farla finita perché non riuscire a pagare l’affitto è un disonore. La fine dell’inferno non sono gli imprenditori che staccano la spina perché lasciare altre famiglie oltre alla propria in mezzo a una strada è un disonore.
La fine dell’inferno è in quella strada secondaria buia nella quale l’Italia sta morendo. E dove quel mandante con uno strano accento teutonico sta cercando di confinarla…
Wall & Street
(il Giornale)
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