domenica 29 settembre 2013

Dove crescono i moderati. Andrea Mancia e Simone Bressan


 
In un articolato editoriale uscito questa mattina sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista si chiede retoricamente dove siano finiti i "moderati" e perché, davanti all'ultimo azzardo berlusconiano, non scelgano responsabilmente di mollare il proprio leader e continuare a sostenere il governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta.

Battista ha molte ragioni, e molte volte le sue analisi sono sembrate lucide e prive di quella spocchia salottiera tipica di certi editorialisti chic. Però, prima di rispondere alla domanda su "dove" siano i moderati, occorrerebbe chiarire una volta per tutta "chi" e "cosa" intendiamo indicare con questa categoria politica evocata ad ogni crisi e ad ogni elezione come se si trattasse di qualcosa di mai conosciuto e di mai manifestato. Silvio Berlusconi ha molti difetti. Su tutti quello di continuare a ritenere che il suo destino personale coincida con quello della nazione, meravigliandosi ogniqualvolta il pensiero mainstream tende a dimostrargli il contrario. Nello specifico riteniamo che la sua convinzione sia reale per metà e che, ormai, i suoi destini personali tendano a divergere da quelli collettivi del paese. Questione di narrativa, più che di sostanza: ma tant'è.

Nel 1994, però, Berlusconi riconobbe quello che tutti gli osservatori politici ed istituzionali si ostinavano a negare: anche in Italia esisteva ed esiste un blocco sociale, economico, politico e - latu sensu - culturale che si ostina a rifiutare l'idea di consegnarsi mani e piedi alla sinistra e alle sue ricette egualitariste e stataliste. Un'Italia che guarda con favore a chi ce la fa nella vita, che non vuol veder penalizzata la ricchezza, che, fieramente anti-statalista, quando sente le parole "Pubblica Amministrazione" pensa a un guaio e non alla possibilità di ricavarne un beneficio.

È un'Italia che ha sempre vissuto ai margini della narrazione politica tradizionale e che Berlusconi ha prepotentemente fatto diventare protagonista e decisiva. Non sappiamo cosa siano i moderati o dove stiano nascosti ma sappiamo per certo che cosa non sono. Non sono e non saranno mai gli imprenditori salottieri e gli intellettuali organici che piacciono ai grandi giornali. Sono, piuttosto, un popolo pragmatico e poco incline alla chiacchiera che tende a votare e a farsi rappresentare da chi, quantomeno, ne riconosce l'esistenza.

L'unico che fino ad oggi ci ha provato è stato Berlusconi. Con tutti i limiti che siamo sempre stati pronti a riconoscere e con la consapevolezza che un ciclo politico volga ormai al termine. Ma con una convinzione: quando i "poteri belli e presentabili" (a quelli "forti" non abbiamo mai creduto) hanno cercato di scegliere un leader e di imporlo al popolo "moderato", hanno sempre sbagliato cavallo. Da Mariotto Segni a Mario Monti, passando per Luca Cordero di Montezemolo e Gianfranco Fini. Di Berlusconi hanno sempre osteggiato l'esuberanza da outsider. Quella che, invece, comprende e condivide il popolo di centrodestra. Un popolo che forse non lo seguirà in quest'ultima battaglia ma che, certamente, non lo pugnalerà alle spalle.

I moderati, qualsiasi cosa siano, sanno che un pezzo della loro storia sta anche nella parabola politica di quell'imprenditore brianzolo. Un signore troppo vero per essere bello. (Notapolitica)

Il gioco è finito. Davide Giacalone


E’ finito il giuoco politico più fesso, tutto attorno al seguente dilemma: chi s’intesta la caduta del governo che, tanto, non sa e non riesce a governare? Il presupposto è che il governicida pagherà caro l’attentato alla stabilità. Trattasi di trastullo così pazzotico da fornire anche tratti comici: prima il presidente del Consiglio dice che, in caso di crisi, agli italiani toccherà pagare un punto di Iva in più; poi, visto che la crisi non c’è e lui si trova ancora lì, nella più assoluta immobilità, prepara un decreto in cui l’Iva non cresce, ma crescono accise e Irap (fra i due mali meglio l’Iva); infine sospende il decreto e lo pospone alla verifica. E su cosa la fanno, la verifica? Tutta su dispetti e ripicche? In questo giuoco fra inutili che fanno cose inutili, un bel vantaggio se l’era preso il centro destra, che annunciando le dimissioni dei propri parlamentari ha fatto un regalone ai governanti riluttanti, offrendo loro una via d’uscita per responsabilità altrui. Ora si dimettono i ministri. La crisi di governo era nelle cose da tempo, averla ufficialmente aperta dovrebbe aiutare a ritirare l’annuncio di dimissioni parlamentari. Sommare crisi, decadenza e dimissioni è un incubo. Aizza le tifoserie, ma allontana il pubblico.

Tutta questa roba, raccontabile solo in odioso politichese (infatti mi sono già stufato), s’accompagna alla trasformazione genetica della democrazia parlamentare in monarchia. Il rapporto fra Giorgio Napolitano ed Enrico Letta non ha nulla a che vedere con la Costituzione del 1948, piuttosto ricorda quello fra il re e il “suo” primo ministro. Forse sarà l’influenza del Quirinale, residenza monarchica, ma posto che ci abitarono anche i papi non vorrei che la cosa dilagasse fino ad averne un terzo. E trattasi anche di re loquacissimo, pronto a intervenire nel dibattito politico. A tal proposito vale la pena puntualizzare due questioni, relative al galateo istituzionale e alla giustizia.

Dice Napolitano che non ci sono più le buone maniere di una volta, quando la pur aspra vita politica non trascinava nella rissa il rispetto istituzionale. I ricordi talora commuovono e talora ingannano. Qualche altra nascono già taroccati. Nei miei ho il gruppo parlamentare comunista, di cui faceva parte l’odierno presidente, che diede all’allora inquilino del Quirinale, Giovanni Leone, del ladro, del tangentaro e del corrotto, imponendogli le dimissioni. Poi si accertò che non era vero e il presidente era innocente, ma anche finito. Ancora oggi, e questi sono i prodigi della memoria corrotta, sono certo che taluno trasalga a queste parole: ma come, Leone non era un delinquente? No. Però, dice Napolitano, quel che non si deve fare è evocare il golpe. Eppure ricordo che a Francesco Cossiga fu rimproverato, alternativamente, d’essere totalmente fuori di senno o di tramare contro le istituzioni. Tanto che ne fu chiesta, sempre dal gruppo di Napolitano, la messa in stato d’accusa per tradimento della Costituzione. Il ricordo del galateo, insomma, somiglia tanto a quello delle mezze stagioni.

Sul fronte della giustizia manifesto la più piena solidarietà a Napolitano, ancora insistentemente chiamato, dalla procura di Palermo, a deporre in un processo penale. Il presidente non deve andare. Siamo pronti a difenderlo in tal senso. Aggiungo (sembra non entrarci, ma c’entra) che considero sbagliata la posizione assunta da Forza Italia, sia relativamente alle annunciate dimissioni che sul tema della legge Severino. Considero politicamente sciocco sollevare il problema della retroattività, perché votandola commisero un errore non rimediabile. Però, ed è questo il motivo per cui lo dico, oggi il centro destra chiede quel che il Quirinale volle per sé: un parere della Corte costituzionale. Perché in quel caso sì e in questo no?

Il presidente della Repubblica è irresponsabile, ma solo nell’esercizio delle proprie funzioni. Se ammazza a pistolettate un corazziere è ovviamente responsabile. Come se ne esce? Ci guidò il grande Costantino Mortati, costituzionalista e costituente: a parte la messa in stato d’accusa, deliberabile dal Parlamento, in caso di reato non legato alla funzione il presidente è responsabile, ma improcedibile. Vale a dire che il processo glielo fanno quando scende dal Colle. Ecco: testimoniare non è certo relativo all’esercizio delle funzioni, per giunta su una cosa che non fece lui, ma un suo collaboratore, non coperto da alcuna immunità. Deve andare? La consulta rispose: no. Fine. E se la procura insiste, questo sì ha dell’insurrezionale. Oggi cosa chiede il centro destra, finito nel vicolo cieco di volere evitare l’inevitabile? Chiede che sia sentita la Corte costituzionale. Ci pensino, prima di dire di no. A me sembra una richiesta disperata e disperante, perché la Corte considererà applicabile la Severino (che, semmai, è incostituzionale perché subordina il Parlamento a un altro potere, ma questo è singolare lo sostengano gli stessi che l’hanno votata). E perché, nelle more del giudizio, arriverà l’interdizione dai pubblici uffici.

Perché negarlo, allora, come fanno tutti, dal Colle in giù? Perché il centro destra ha il sangue agli occhi e la testa annebbiata, ma gli altri cercano costantemente la provocazione, per nascondere il vuoto d’idee che li riempie. Il gioco è finito, il governo è caduto. Se non si fermano isterismi e aizzamenti si andrà alle elezioni dopo essere passati per un governo del re. Ma di un re assoluto, manco costituzionale.

Pubblicato da Libero
29 settembre 2013

La proposta di dimissioni di massa dei parlamentari ha una sua storia, legata a quella di Berlusconi in politica. Quando all’inizio del 1995 il primo governo di Berlusconi, abbandonato dai leghisti e avvisato dai pm milanesi, entrò in crisi, fu Pannella a proporre al Cavaliere il gesto clamoroso, per evitare un governo con una maggioranza diversa da quella votata dagli elettori e ottenere dal presidente della Repubblica Scalfaro nuove elezioni. Il maggioritario era al suo debutto e venne subito coniato il termine “ribaltone”, impensabile nella appena archiviata prima Repubblica. La fantasiosa mossa pannelliana voleva appunto scongiurare il ribaltone. Berlusconi fu tentato dalla proposta ma alla fine non se ne fece nulla. Non è detto che avrebbe funzionato ma è sicuro che riproposta oggi tutto potrà far succedere ma non nuove elezioni. Non per altro ma perché nel 1994 i tre quarti della Camera erano stati eletti con l’uninominale e per sostituire i deputati non c’era altra via che nuove elezioni nei collegi, peraltro solo quelli dei dimissionari. Oggi con il proporzionale subentra il primo dei non eletti ed eventualmente il secondo, il terzo e così via. E le dimissioni sono votate, una per una, dall’aula che può respingerle almeno la prima volta. Può durare anche anni. E’ bene saperlo.
di Massimo Bordin@MassimoBordin

Irretiti. Davide Giacalone


Irretiti dalla bischerate che, negli ultimi giorni, sentono dire agli italiani, hanno subito un rallentamento sia le attività terroristiche che quelle di prevenzione e sicurezza. Capita, nel mondo, che ogni tanto l’agente inglese o il fondamentalista islamico ripensino a quel che hanno sentito dire della rete Telecom Italia e s’accascino piegati in due dalle risate. Dalle parti nostre, invece, non solo le hanno dette, ma non hanno ancora capito d’essere ridicoli. Il che, a ben vedere, è la cosa più preoccupante.

Mettiamo un attimo da parte la questione economica, che già di suo sarebbe decisiva. Facciamo finta che non sia infinitamente scandaloso anche solo supporre di usare i soldi degli italiani per ricomprarsi una rete che fu costruita con i soldi degli italiani e poi affidata ad alterne cordate di profittatori.

Restiamo all’obiezione che sembra avere un suo fascino: la rete coinvolge problemi di sicurezza, riservatezza e indipendenza. Per questo deve restare italiana. Tesi grossolanamente falsa, anche perché già non è italiana. Senza contare che nel 1999 divenne proprietà di sconosciuti con società lussemburghesi e gli spagnoli sono in sala regia dal 2007.

La rete di Telecom Italia non è costruita, organizzata e manutenuta da Telecom Italia. La gestione della rete è esternalizzata. In quanto ai pezzi della rete, vengono non solo forniti, ma anche assistiti e gestiti da società come la cinese Huawei. Ci sono anche i tedeschi. Quindi: sostenere che la rete di Telecom Italia è controllata da quella società è una fesseria.

La rete Spc (Servizio pubblico di connettività), utilizzata dallo Stato, è gestita con la partecipazione di società che furono egiziane e sono russe (Wind), inglesi (Vodafone e British Telecom), svizzere. La rete in uso alla pubblica amministrazione non è di Telecom Italia. Se ci teniamo stretta quella, per avere sicurezza, facciamo ridere. In quanto alla riservatezza, mi domando se certi testi governativi li scriva qualche genio della comicità: perché, esiste riservatezza? Abbiamo letto le conversazioni di tutti. E la più grande operazione di dossieraggio e spionaggio illegittimo è stata fatta … in Telecom Italia.

Torniamo alla rete per lo Stato e sentite questa, che è surreale: da anni il ministero dell’Interno, quindi il ministero della sicurezza pubblica, della polizia, rinnovava in proroga il contratto di Telecom, per un valore di circa 100 milioni l’anno. Nel 2012 si sono allargati e hanno prorogato il contratto per un valore di 570 milioni. A quel punto Fastweb (proprietà svizzera) ha fatto ricorso al Tar, sostenendo che si dovesse fare una gara. Il giudice ha dato ragione al ricorrente. Il governo s’è opposto? No, ha mandato via il prefetto responsabile dell’irregolarità. Quindi: mentre quattro ignorantoni discettano a vanvera di sicurezza della rete solo se è in mani italiane, il ministero della sicurezza deve mettere a gara la rete della quale si serve. Sulla quale, per dirne una, passa anche il funzionamento dei braccialetti elettronici, per i detenuti. Chissà se i crucciati ciarlieri lo sanno.

Domanda: ma possedendo e amministrando la rete (cosa che Telecom non fa), si possono controllare le comunicazioni dei terroristi? Di quelli fessi, sì. Gli altri te li perdi: bastano due sim dati che dialogano in ip (protocollo internet) e l’intercettatore può usare la rete per andare a pescare. Senza che abbia alcuna importanza la nazionalità delle sim o della rete.

A questo aggiungete che in Italia già sono funzionanti varie reti straniere, naturalmente tutte interconnesse (altrimenti si chiamano “citofoni”). A fronte di queste solari e non smentibili verità il governo conta di fare le barricate, ricordandosi d’essersi scordato di fare il regolamento relativo alla golden share, per fermare gli spagnoli? Ma allora noi stiamo nell’Unione solo per il gusto e la gioia di perdere soldi e regalarli ai greci, nel mentre ci facciamo fregare dai tedeschi. Dov’è finito l’europeismo sbandierato quando si tratta di ossequiare e sleccazzare i tedeschi?

Posto che nella rete italica gli italiani non investono da tempo, il Franco Bernabè che si agita e sollecita l’ignoranza dei politici non va preso come l’ultimo baluardo dell’italianità, ma come l’incarnazione di un’identità albertosordesca. Ed è uno di quelli considerati bravi ed esperti, il che la dice lunga sugli altri. Un’ultima cosa: al Copasir dovrebbero controllare l’attività dei servizi segreti, ma c’è gente che sta al livello dei cip sottocutanei o delle strisce chimiche lasciate nei cieli. Spero che i servizi segreti siano sufficientemente deviati da sfuggire a questo genere di allocchi, perché in caso contrario la nostra sicurezza è dovuta solo all’aura di fortuna che, nonostante tutto, circonda lo stellone.

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venerdì 27 settembre 2013

"Spot con coppie etero", lobby gay contro Mr. Barilla. Marcello Veneziani

Contro Guido Barilla, che ha osato rifiutarsi di fare uno spot pubblicitario incentrato su una coppia omosessuale, è andato in onda un nuovo processo mediatico e ideologico

Acchiappatelo, è una bestia, preferisce la famiglia tradizionale. E così, per l'ennesima volta, ieri è andato in onda un nuovo processo mediatico e ideologico questa volta contro chi ha osato rifiutarsi di fare uno spot pubblicitario incentrato su una coppia omosessuale.
Parlo di Guido Barilla che a «La Zanzara», pur esprimendo tutto il rispetto e la considerazione per le coppie gay, ha detto che la sua azienda da sempre si rivolge alla famiglia tradizionale nelle sue campagne pubblicitarie. E lui personalmente predilige la famiglia composta da padre, madre e figli. In altri tempi sarebbe stata la scoperta dell'acqua calda, oggi l'acqua si fa bollente e non serve a cuocere la pasta ma Barilla in persona. Infatti è partito subito il feroce tam tam dell'omolatria dominante, gli insulti, le minacce di boicottaggio della pasta. Eccolo, il nemico, il becero fautore di Dio, pasta e famiglia; eccolo, l'omofobo, crocifiggetelo al Mulino Bianco.

Proviamo a ragionare: qui non è in gioco nemmeno un'opinione critica sui gay e sulle loro unioni ma un'opinione favorevole alle famiglie tradizionali. Nessun'offesa è stata pronunciata, neanche ironia verso i gay; solo una semplice, naturale (si può dire naturale o è contro la legge?) preferenza per la famiglia come è sempre stata. Non è in gioco uno spot che offende i gay o che contiene un'allusione omofoba, qui si processa un imprenditore che non vuol fare uno spot pubblicitario puntando su una coppia omosessuale. La feroce demenza dell'omocrazia scava ogni giorno fossati d'odio. Chi non ha alcuna antipatia per gli omosessuali è costretto a dover giustificare il suo amore per la famiglia «tradizionale». Che non è, si badi bene, la famiglia patriarcale o il clan tribale, ma è la famiglia quale che è sempre stata alla base di ogni società e di ogni civiltà; cristiana, precristiana, non cristiana.

A proposito di gay vi racconto cosa è successo domenica scorsa in Piemonte. Ma una premessa a questo punto è utile. Cosa accadrebbe se un raduno gay o islamico fosse interrotto e disturbato da alcune decine di molestatori? Con la nuova legge sull'omofobia e sulle minoranze religiose scatterebbe un procedimento penale serio; intanto ne parlerebbero con sdegno i media, i tg, le istituzioni. A Casale Monferrato, domenica scorsa, è accaduto esattamente questo ma a ruoli invertiti (si può dire invertiti o è reato?): un pacifico convegno di studi, cattolico, anzi diocesano, sui gender e l'omofobia è stato duramente interrotto, contestato, il palco accerchiato, grida di vergogna, cartelli, invettive anche gestuali. Fino a bloccare l'incontro. Stava parlando non uno scalmanato estremista ma un giurista, il professor Mauro Ronco, ordinario di diritto penale e parlava proprio della legge sull'omofobia. I contestatori erano del collettivo AlterEva e dell'Arcigay. Avete per caso sentito sul fatto una dichiarazione della Martire di Stato Ministro Kyenge o della Santa Protettrice degli Oppressi, Madonna Boldrini che vuol cancellare dagli spot in tv immagini di donne sorprese a far le mamme in cucina? Ma no, figuriamoci. Rare voci di denuncia, come quella del magistrato ed ex deputato Alfredo Mantovano. Poi silenzio abissale. Ma che razza di società state cucinando per il domani?

Se il convegno fosse stato organizzato da una comunità islamica, sarebbe invece scattata la legge Mancino che tutela le minoranze religiose. Ma poiché si trattava di cattolici no. Mi scappa da ridere. Poi penso al Pakistan, al Kenya, alla Siria, ai cristiani massacrati, e mi viene da piangere. (il Giornale)

martedì 24 settembre 2013

La Corte europea dei diritti dell'uomo: no al carcere per i giornalisti. Nico Di Giuseppe

Strasburgo dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano per diffamazione

 
Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti.
A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

Belpietro fu condannato per diffamazione a quattro anni di carcere, poi sospesi, per aver pubblicato, nel novembre 2004, un articolo firmato da Raffaele Iannuzzi dal titolo "Mafia, 13 anni di scontri tra pm e carabinieri", ritenuto diffamatorio nei confronti dei magistrati Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte. I giudici di Strasburgo nella sentenza spiegano che una pena così severa rappresenti una violazione del diritto alla libertà d’espressione del direttore di Libero. La Corte sottolinea infatti che
Belpietro venne condannato dalla Corte d’Appello di Milano non solo a risarcire Lo Forte e Caselli per un totale di 110 mila euro, ma fu anche condannato a quattro anni di prigione.

Secondo la Corte è questa parte della condanna, anche se poi sospesa, a costituire una violazione della libertà d’espressione. La Corte infatti ritiene che, nonostante spetti alla giurisdizione interna fissare le pene, la prigione per un reato commesso a mezzo stampa è quasi sempre incompatibile con la libertà d’espressione dei giornalisti, garantita dall’articolo 10 della convenzione europea dei diritti umani. Insomma, per i giudici di Strasburgo, nonostante l’articolo di Iannuzzi sia stato giustamente considerato diffamatorio, esso non rientra in quei casi eccezionali per cui può essere prevista la prigione. Strasburgo ha condannato l'Italia per aver violato il diritto alla libertà d'espressione di Belpietro. Per questa ragione, lo Stato dovrà versare al direttore di Libero 10mila euro per danni morali e 5mila per le spese processuali. (il Giornale)

domenica 22 settembre 2013

I nemici della stabilità stanno a sinistra. Arturo Diaconale


Nella Germania Federale il Partito Comunista era vietato per norma costituzionale. Con la conseguenza che il partito socialdemocratico non ha dovuto temere nemici a sinistra per quasi quarant'anni ed ha avuto la possibilità di marginalizzare qualsiasi componente avesse la tentazione ideologica di porsi fuori del sistema. La caduta del Muro di Berlino e la capacità dei leaders socialdemocratici, in particolare Schroeder, di tenere ferma la barra della Spd sulla linea del partito di governo escludendo il richiamo della lotta antisistema, hanno fatto il resto.

In Germania, a differenza di quanto scrive Antonio Polito, non è la comune tendenza di Cdu ed Spd al buonismo generale a consentire le larghe intese e la stabilità ma sono le condizioni politiche frutto di una storia che non si presta ad equivoci a renderle possibili nei momenti di necessità. In Italia, invece, la storia e le condizioni politiche sono state completamente diverse. Nel secondo dopoguerra il nostro paese è stato segnato dalla presenza del più grande partito comunista dell'Occidente e dal realismo di una Chiesa Cattolica convinta, dopo Pio XII, che con questo partito si dovesse comunque trovare una intesa o un modus vivendi.

Inoltre il Dna della massima forza della sinistra italiana non è mai stato quello della Spd tedesca ma, secondo la formula berlingueriana, quello del partito di lotta e di governo. Cioè di essere al tempo stesso un partito del sistema ed un partito antisistema. Dai tempi di Berlinguer ad oggi quel Dna non è minimamente cambiato. Siamo passati dalla Prima alla Seconda Repubblica, dal proporzionalismo al maggioritario ed alla democrazia dell'alternanza, ma il maggiore partito della sinistra, che nel frattempo ha realizzato al proprio interno un mini-compromesso storico tra cattolici democratici e post-comunisti, ha continuano a rimanere imperterrito sia di lotta che di governo, sia di sistema che contrario al sistema.

Perché, allora, le larghe intese destinate ad assicurare una stabilità di necessità da noi sono molto più precarie ed instabili che in Germania? La risposta è nei fatti. Perché, ora che il sistema da bipolare è diventato tripolare ed è segnato dalla presenza di una forza come il Movimento Cinque Stelle, dichiaratamente antisistema, una parte consistente del Pd non sa e non vuole resistere al richiamo di quella parte del proprio Dna che lo spinge non verso la stabilità di un governo di necessità ma verso la lotta contro qualsiasi governo, tanto più se nel governo in carica figurano i nemici da sempre considerati moralmente e antropologicamente inferiori.

Si capisce che lo sforzo cerchiobottista dei media politicamente corretti sia diretto a sostenere la tesi che la stabilità viene messa in discussione dagli opposti estremisti del centro destra e della sinistra. Ma si capisce altrettanto chiaramente che questa tesi è una balla colossale. Perché nel centro destra le forze antisistema, che pure esistevano nel passato, sono state progressivamente mariginalizzate. Nella sinistra, viceversa, continua a verificarsi il fenomeno opposto. Non dice nulla a Polito la constatazione che l'unico modo di Matteo Renzi di conquistare la leadership del Pd è di accarezzare il pelo di coloro che continuano ad avere il mito della lotta infischiandosene del fatto che alla guida del governo c'è l'ex vicesegretario del loro stesso partito? (l'Opinione)

giovedì 19 settembre 2013

Sparaflashati. Davide Giacalone

Cosa ha consentito a Olli Rehn di presentarsi in Italia e usare quel tono inaccettabile? Non che abbia torto nel merito, è che nessuna istituzione dell’Unione può presentarsi in un Paese e svillaneggiarne la sovranità. Tanto più che si parla di 4 miliardi (per il punto di Iva uno solo), mentre ne abbiamo consegnati più del doppio (8.7) dall’inizio dell’anno, e complessivamente 51.3, come fondi per aiutare gli europei in difficoltà. Resto convinto della necessaria collocazione dell’Italia nell’Ue, sono sicuro che un distacco ci nuocerebbe, ma in ogni parte del continente sanno benissimo che un’Ue senza Italia non esiste. Allora: chi ha autorizzato Rehn a permettersi di fare l’oltraggioso spiritoso? Temo che sia stato il governo italiano. O, meglio, quel che c’è di un governo mai esistito, la cui maggioranza non è tale nel Paese e se lo resta in Parlamento è solo perché non hanno voglia di andare a riprendersi le scudisciate degli elettori. Ancora una volta siamo all’uso dell’Europa come vincolo esterno, che aiuti il governo a fare quel che, altrimenti, non sanno fare. Il guaio è che adesso faranno quel che non devono.


Il presidente del Consiglio aveva detto che se ci fosse stata la crisi di governo la legge di stabilità sarebbe stata scritta a Bruxelles. Ma Rehn è venuto a Roma per dettarne non solo i contorni, bensì anche i dettagli. Ha messo becco non solo nei saldi, ma nelle modalità di copertura fiscale. Quando questo capita vuol dire che si è già commissariati, si è già persa sovranità e la successiva discussione parlamentare non serve a niente. Il parlamenticidio, di cui scrivevo ieri, si compie non solo accettando che un ordine ne detti la composizione, ma anche accettando che da fuori Italia si diriga il fisco. La politica ha conservato il diritto ad animare risse di cortile, ma ha perso ogni pretesa di governare altro che la propria sopravvivenza.

Due cose m’inducono a rafforzare il sospetto che le parole di Rehn fossero quasi concordate. Anche senza il quasi. La prima è che non aveva finito di parlare e già si è introdotta l’idea che il punto di aumento Iva sarà confermato. L’Iva non è l’Imu, c’è la convergenza compatta del Pd e Pdl. Come la loro compatta sconfitta. Al ministero dell’Economia, insomma, è come se avessero detto: avremmo voluto venirvi incontro, ma Rehn ha ribadito il vincolo. Può anche darsi che, a forza di urla e minacce, quel miliardo poi si trovi, ma resta il vantaggio preso da chi può meglio opporsi a qualsiasi altra cosa che non sia tassare e finanziare il debito. Una seconda cosa induce a ulteriore riflessione: nel momento in cui la sovranità italiana viene schiaffeggiata, con la maggioranza di governo che non si sgretola perché non s’è mai aggregata, e con il governo che riconosce di non riuscire a trovare un miliardo per l’Iva, non riesce a tagliare neanche un ottocentesimo della spesa pubblica, nel mentre questo va in scena, lo spread cala. Cala ovunque, intendiamoci, ma quello italiano è ricondotto leggermente sotto quello spagnolo. Non ho mai creduto che i mercati possano essere così manovrati. Diciamo che il commissariamento dell’Italia ha destato fiduciose attese.

Un commissariamento davvero singolare, perché fatto senza aiuti dall’esterno e tutto in conto agli italiani stessi. Talché forse sbaglio, a definirlo commissariamento, somigliando di più all’implosione dei poteri interni, al loro sfarinarsi in guerre tribali, e al sostituirsi di piloti esterni. Proprio perché in tutte le capitali europee è evidente che senza Roma non si va da nessuna parte. Sembriamo un Paese che brama di consegnarsi ai Man in Black, ansioso di farsi sparaflashare per potere dimenticare sé medesimo. Peccato che dopo l’oblio avremo sempre ben possente l’Italia che campa di spesa pubblica, ma picchiata al fegato quella che compete e vince. Ritroveremmo intatte le nostre debolezze e fiaccate le nostre forze. Altro che stabilità, questo è rigor mortis.

Quanti se ne rendono conto, in quel che resta della classe dirigente, devono farsi sentire ora. Si può scrivere da capo il patto di governo, o si può farla finita e restituire la palla (non giocata) agli elettori. Quel che non si può fare è quel che si sta facendo: perdere tempo a cura di gente che non ha nulla da perdere, perché sa solo barcamenarsi e non ha mai provato l’ebrezza di lavorare e produrre.

Pubblicato da Libero

mercoledì 18 settembre 2013

Il paradosso di una sinistra che si svela. Valter Vecellio


L'Opinione - Come finirà la campagna per i 12 referendum radicali non ci si azzarda a dirlo e prevederlo. La raccolta delle firme è ancora in corso, ed è cominciata la complessa procedura di “controllo” e “pulitura” dei moduli e delle firme stesse: che vanno accompagnate dai certificati elettorali, occorre controllare che i timbri richiesti dalla legge ci sian tutti e siano regolari, e via così.

Ma si raggiungano o meno le 500mila firme autenticate per tutti o per alcuni dei referendum promossi, qualche considerazione (e qualche riflessione) già ora può essere fatta. Per tanti motivi (e ci sarà tempo e modo per analizzarli), si può dire che nei primi due mesi circa la campagna referendaria sia andata avanti in modo “sonnecchiante”, pochi tavoli, pochissime firme; tutto autorizzava pessimismo circa la possibilità di raggiungere quota 500mila firme autenticate. Poi, grazie all’incessante pressing esercitato da Marco Pannella su Silvio Berlusconi, è scattato quel “qualcosa” che ha rivitalizzato la campagna.

Il 31 agosto, un sabato mattina, Berlusconi accompagnato da Pannella e da altri esponenti e militanti radicali e del PdL, firma al gazebo di Largo Argentina a Roma tutti e dodici i referendum, e dichiara: ''Firmo non solo i sei referendum sulla giustizia, che sono sacrosanti, ma firmo anche gli altri su cui non sono d'accordo, ma con questa firma voglio affermare il diritto degli italiani ad esprimersi direttamente con un voto su questioni che li riguardano direttamente''.

Posizione schiettamente liberale; i sei referendum “sacrosanti” sono appunto quelli sulla giustizia. Su alcuni degli altri Berlusconi esprime chiaramente perplessità se non contrarietà: quello, per esempio, sulla Boss-Fini; o sulla Fini-Giovanardi o sull’8 per mille: referendum relativi a leggi varate da governi da lui presieduti. Quando si arriverà al voto, al SI e al NO, è da credere che Berlusconi voterà e inviterà a votare contro l’abrogazione di quelle leggi; ed è probabilmente favorevole al finanziamento pubblico ai partiti.

Come sia, si avvierà un dibattito, un confronto, le ragioni del SI e del NO potranno finalmente (forse!) essere conosciute, e l’elettore deciderà secondo l’opinione che si sarà formata. Per il momento, il dato incontrovertibile, è che Berlusconi ha dato un formidabile contributo alla campagna referendaria, e se un giorno ci potremo esprimere su queste questioni e dire se siamo favorevoli o contrari, dovremo ringraziare anche lui.

C’è poi il comportamento da cupio dissolvi, davvero incredibilmente incomprensibile (o se si vuole, comprensibilissimo, se si pensa chi sono i suoi leader) è quello della sinistra in generale, e del Partito Democratico in particolare. Lasciamo perdere il segretario pro-tempore Guglielmo Epifani, cui Marco Pannella forse fa troppo onore definendolo un emulo di Robespierre o di Saint-Just. Lasciamolo sguazzare nei suoi stanchi e patetici NO, NO, NO, da bimbetto che pesta i piedi e fa i capricci. Prendiamo il corpo del partito, o quello che ne rimane, dopo le varie “cure” Veltroni-D’Alema-Bersani-Franceschini-Bindi-Renzi-ecc. I referendum, i comportamenti lo dicono in modo eloquente, li vedono come il fumo negli occhi. Tutti, nessuno escluso.

La domanda, a questo punto, è molto semplice: c’è l’opportunità di abrogare quell’istituto incivile e barbaro che è l’ergastolo, il “fine pena mai”, che papa Francesco ha eliminato con un tratto di penna a Città del Vaticano. Perché per quel referendum non firmano e non raccolgono le firme? Non è il solo referendum che dovrebbe vedere mobilitata la sinistra, il mondo progressista, i democratici. Perché, per esempio, rinunciano ad abrogare le norme della Bossi-Fini che ostacolano il lavoro e il soggiorno regolare degli immigrati, dopo averne detto ovunque peste e corna? Perché rinunciano ad abrogare le norme che prevedono il carcere anche per fatti di lieve entità della legge anti-droga Fini-Giovanardi? Perché rinunciano a eliminare quelle norme che riempiono le carceri di consumatori? Perché rinunciano a eliminare i tre anni di separazione obbligatoria prima di ottenere il divorzio?

Si diminuirebbe il carico sociale e giudiziario che grava sui cittadini e sui tribunali in termini di costi e durata dei procedimenti. Non sono battaglie politiche di sinistra, progressiste, riformatrici? Ecco cosa mettono già in luce questi dodici referendum: battaglie progressiste, riformatrici, che dovrebbero essere orgoglio, vanto e bandiera della sinistra e di un PD non ridotto alla larva che è, sono fatte dal campione della destra; e la sinistra tace, tetragona nel suo paralizzante immobilismo, affondata in una morta gora da cui non sa, non vuole, non riesce ad uscire. Ma di che parlano e che cosa ci propongono, oltre a Berlusconi da abbattere, l’“uomo nero” che li cementa? Possibile che non sappiano nulla, non dicano nulla, non facciano nulla? La risposta lapidaria sono tre SI.

lunedì 16 settembre 2013

Epifani e Kim Yong. Vito Schepisi


Nei regimi totalitari niente del popolo e dei sudditi è segreto. Persino il capo condomino di un fabbricato ha l'obbligo di origliare e di riferire sulle abitudini e sui sospiri degli inquilini. E’ riservato, invece, l’esercizio incondizionato del potere ed è riservata la conoscenza della realtà sociale ed economica dello Stato.
I regimi illiberali si reggono sul ricatto e sulla discrezionalità degli apparati. Tutto deve essere convergente per l'esercizio indiscusso ed esclusivo del potere. Nei paesi totalitari, nelle dittature militari o in quelle populiste o, ancora, nelle altre emanazioni politico-amministrative di estrazione etica e fondamentalista, c'è l'odio e la repressione per tutto ciò che è plurale: non esiste la libera espressione del pensiero, né l'autonomia della propria coscienza.
 
C’è la necessità dell'omologazione totale del pregiudizio verso gli avversari. Questa componente ideologica è come se fosse la sostanza stessa dell'azione politica e della strategia sociale e culturale del Paese. Si odia il capitalismo piuttosto che il liberalismo, ed i regimi diventano centri di rieducazione e divulgatori dei principi dell’etica e della morale.
 
In democrazia, invece, soprattutto il giudizio che incide sulla "dignità" delle persone, cioè sulla sua sfera individuale, non può ridursi ad un voto di opportunità politica, quanto, invece, ad una espressione ragionata della propria coscienza. Pensare e dire, come ha fatto Epifani, per il voto in Giunta sulla decadenza di Berlusconi, che il PD, compatto, voterà si alla decadenza del leader del centrodestra lo fa apparire, invece, come un mero voto di opportunità politica.
 
Ma la Giunta per le immunità schierata come riflesso dei partiti a che serve?
Se non servisse far prevalere la coscienza dei componenti la Giunta, basterebbe far votare i capigruppo con il peso dei propri parlamentari ed il gioco sarebbe già fatto, senza perdere ulteriore tempo e denaro.
 
Se il Parlamento, però, perdesse, anche formalmente, la sua funzione di rappresentare i cittadini, la nostra non sarebbe più democrazia. Potremmo anche deputare alla magistratura, scalpitante e bramosa di esercitare un potere, il compito di pensare e di agire per tutti! Così diverrebbe anche tutto più evidente. Sarebbe la traduzione visibile di ciò che sta avvenendo oggi in Italia. Ed il regime che si sta instaurando nel nostro, invece di apparire e di dirsi democratico, per onestà intellettuale, sarebbe più visibilmente autoritario e illiberale.
 
Mi chiedo ancora a cosa valga una Giunta per le immunità il cui Presidente si è espresso prima ancora che fosse stata convocata la Giunta, se non una parvenza di democrazia, ove l’azione democratica sarebbe sola quella di ratificare ciò che già si è stabilito?
 
Quella del senatore Stefàno è solo una smania di protagonismo, alla "Esposito", o è una forma d’incultura della democrazia?
 
Nel primo caso, l'Italia alla "Esposito" avrebbe un che di burlesco che non può piacere, anzi sarebbe disgustosa, nel secondo dovremmo incominciare a chiederci se 65 anni di retorica democratica ed antifascista non siano serviti che a reincarnare l'orrore.
 
Se quello della giunta diventasse un voto politico, con i segretari dei partiti che indicassero la strada da seguire, il ruolo del segretario del PD sarebbe doppiamente ingannevole. Epifani renderebbe visibile la doppia intenzione del PD: liberarsi dello scomodo avversario politico, dopo averci provato per 20 anni - senza riuscirci - e bocciare l'alleanza di governo con il Pdl a guida di un uomo dello stesso PD.
 
Quando c'è il PD di mezzo la confusione regna sempre sovrana, e se non c'è il saccheggio materiale del Paese, c'è quantomeno il consueto tentativo del saccheggio delle coscienze e della democrazia liberale.
E siccome non si fidano dei loro uomini, come accade a tutti i dittatori, ad Epifani piacerebbe il voto palese sulla decadenza di Berlusconi, per potere esercitare il potere di condizionamento del partito sulle coscienze dei suoi senatori.
Come ad un Kim Yong qualsiasi. (LSBlog)

martedì 10 settembre 2013

Deve essere uguale per tutti la legge. Carlo Priolo

 


Non è scritto in nessuna parte della Costituzione che “la legge è uguale per tutti”. Per la semplice ragione che se fosse scritto così sarebbe un’emerita castroneria, oltre a non corrispondere alla concreta applicazione delle norme. La legge deve (deve, non è) essere uguale per tutti, in quanto la legge oltre a contenere la norma, il precetto, la regola di condotta, il principio, deve essere applicata in modo che sia effettivamente uguale per tutti.

Quindi la singola norma deve trovare la sua applicazione nei singoli e specifici casi (fattispecie concreta) in maniera che si possa nella maggior parte dei casi raggiungere l’obiettivo che sia uguale per tutti. Affinché ciò accada devono esserci tutta una serie di norme che garantiscano la riuscita della concreta applicazione senza che un soggetto sia favorito o sfavorito rispetto ad altri. Infatti, l’articolo 3 della Costituzione non recita che la legge è uguale per tutti, ma stabilisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Esattamente la norma costituzionale non dice che la legge è uguale per tutti, come il vasto esercito dei somari di regime ripete da mesi, ma stabilisce che i cittadini sono uguali davanti alla legge, dove il termine legge in questo contesto deve essere interpretato come ordinamento giuridico. L’uguaglianza di tutti i cittadini (come pure gli stranieri e gli apolidi) di fronte alla legge implica un generale obbligo di osservanza delle leggi anche da parte di coloro che le creano o vi dànno esecuzione, al fine di scongiurare abusi di potere da parte dei soggetti pubblici in danno dei cittadini.

Il principio di uguaglianza fissato dall’articolo 3 della Costituzione vieta allo Stato di emanare provvedimenti che siano discriminatori in base a uno o più dei sei parametri in essa indicati (sesso, razza, religione, ecc.). Questo principio trova applicazione concreta in numerose norme costituzionali che disciplinano situazioni specifiche ad esempio nell’articolo 8 che stabilisce l’uguale libertà di tutte le confessioni religiose; nell’articolo 29 che sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi; nell’articolo 37 che, a parità di lavoro riconosce l’uguaglianza di diritti e retribuzioni fra lavoratori e lavoratrici. Gli articoli della Costituzione non vanno solo letti, ma capiti e interpretati.

Penosamente i dirigenti del Pd continuano ad alimentare gli stolti militanti del cibo caramelloso che tanto li appaga e li condanna a ripetute sonore sconfitte. L’obbligo di osservanza delle leggi erga omnes deve essere garantito da coloro che vi dànno esecuzione o meglio deve esserci una struttura organizzativa dell’amministrazione della giustizia che sia quanto più vicina a standard di efficienza, efficacia, uguaglianza e questo tutti sanno che in Italia così non è. Raccontare ancora all’ignorante popolo del Pd che il loro partito politico è quello della difesa dello Stato di diritto, della legalità, presidio della democrazia, dell’etica politica, del rispetto delle sentenze della magistratura è una cantilena non solo falsa (in politica qualche bugia è necessaria), ma demenziale.

Pannella da 60 anni ripete la stessa cantilena e non ha mai superato il 2%. Renzi, l'uomo del sussidiario, si dovrebbe rottamare da se stesso se fosse coerente con quello che ha predicato nel recente passato, con il suo parlar ignorante aiuta il popolo allegro delle feste dell’Unità a declinare i verbi, a distinguere le vocali delle consonanti, ma non aiuta a far capire come salvare il Paese dalla catastrofe. Le circostanze (prevedibili) della sconfitta elettorale di Bersani l’hanno lanciato alla corsa della leadership e forse ha compreso che i più fedeli militanti del Pd sono dei bravi idioti che devono essere gratificati con tutte quelle dichiarazioni ad effetto breve, che primeggiano nello stupidario nazionale, ma non capisce che automaticamente diventa l’omologo di sinistra di Brunetta, della Santanchè, della Carfagna, della Comi che tanto ha criticato per i loro atteggiamenti politici. Renzi, dicci qualcosa di intelligente, anche se comporta prendere qualche fischio alle feste dell’Unità.

Dovrebbe riflettere che in Italia per vent’anni abbiamo ascoltato la Parietti e che il buon Grillo è stato capace di portare in Parlamento più di 100 soggetti che possono utilmente andare a scuola dalla stessa Parietti. La violenza è il linguaggio della morte; la guerra anche verbale, politica, di lotta crea altra guerra. La vittoria ottenuta con le armi, anche verbali, con la morte, con la sconfitta del nemico, dell’avversario è effimera; presto i vinti umiliati prenderanno di nuovo le armi, si riorganizzeranno, troveranno altri leader che sostituiranno quelli sconfitti e saranno ancora più determinati a lottare, a cercare una rivincita con ogni mezzo. La violenza sarà più atroce; il destino delle genti, il futuro dei popoli, il Governo del Paese fatalmente non potrà che regredire, peggiorare. Non potrà esserci crescita, sviluppo, coesione sociale, migliori condizioni di vita.

Il presidente Napolitano ha da tempo annunciato la necessità dell’armistizio e il presidente Enrico Letta sta egregiamente applicando il contenuto dell’armistizio, sarebbe intelligente e opportuno collaborare e invitare gli affabulatori dei militanti ignoranti al silenzio. L’8 settembre del 1943 fu l’annuncio dell’Armistizio del Governo italiano. Il 7 settembre 2013 Papa Francesco ha predicato la pace al mondo intero. L’inutilità dell’odio, della morte, della sconfitta del nemico dovrebbe spingere i nostri riottosi padroni dei partiti ad un gesto di umiltà e di tolleranza. (l'Opinione)

sabato 7 settembre 2013

Una pericolosa ferita al diritto di voto. Federico Punzi

 


La legge Severino, di cui si discute in questi giorni l'applicabilità al caso Berlusconi, di fatto introduce una conseguenza sanzionatoria, incandidabilità e decadenza, nei confronti di coloro i quali subiscano condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, a prescindere che sia inflitta o meno la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Quindi una sanzione “automatica”, una tagliola che scatta anche se il giudice non ha ritenuto di disporre l'interdizione al momento della sentenza. Per quanto si sostenga il contrario, la conseguenza sanzionatoria – sia essa penale o solo amministrativa – è auto-evidente: ogni sanzione, infatti, ha l'effetto di ridurre la capacità di esercitare un diritto, in questo caso il diritto di elettorato passivo.

Ma anche se non rientrasse tra le norme penali, la cui irretroattività è sancita a livello costituzionale, la legge Severino non potrebbe comunque avere effetti retroattivi in assenza di una deroga esplicita – che non pare esserci – alla regola generale dell'irretroattività delle leggi. Ma ammesso e non concesso che la legge Severino, come sostengono alcuni, non sia di natura sanzionatoria, che disponga da sé, implicitamente, la propria retroattività, e che si limiti a stabilire un requisito di eleggibilità (prevedere che chi non abbia compiuto 25 anni non sia eleggibile alla Camera non è certo una sanzione), a maggior ragione, se così fosse, andrebbe a mio avviso sottoposta al giudizio della Consulta.

Se così fosse, infatti, in gioco non ci sarebbe solo la capacità giuridica del titolare del diritto di elettorato passivo, ma anche il concreto esercizio del diritto di elettorato attivo da parte di milioni di cittadini. Si può togliere a qualcuno il diritto di candidarsi ed essere eletto – e indirettamente ai cittadini il diritto di votarlo – infliggendogli una pena accessoria a seguito di un procedimento penale, il quale però prevede tutta una serie di garanzie a sua difesa. Ma togliere a 40 milioni di elettori il diritto di votare per qualcuno semplicemente restringendo i requisiti di eleggibilità, in modo retroattivo ed extragiudiziale, è faccenda un po' più delicata.

Siamo così sicuri che in democrazia il “controllo di legalità” debba prevalere in modo così netto, automatico e generalizzato sul “controllo democratico”? Non dovrebbe preoccuparci che l'elettorato attivo, cioè quello esercitato dal popolo, venga limitato non solo da una sanzione penale accessoria, applicata al termine di un regolare processo, com'è l'interdizione, ma anche da un semplice requisito di eleggibilità introdotto con legge ordinaria? Forse non è un caso se la non eleggibilità a deputato dei minori di 25 anni è una norma di rango costituzionale. E se milioni di elettori ritenessero che il candidato o l'eletto condannato sia vittima di una persecuzione politica e volessero comunque che li rappresentasse?

Sul diritto soggettivo al voto dovrebbe prevalere l'interesse legittimo collettivo ad avere un Parlamento privo di condannati? Ne siamo così certi? Il Parlamento equivale proprio ad un ufficio pubblico? Per la salute di una democrazia non sarebbe forse un “male minore” accettare che teoricamente un condannato in via definitiva possa venire eletto, se il popolo lo desidera, e se non interdetto da un giudice naturale, piuttosto che correre il rischio che un potere, anzi un ordine fuori controllo abusi del cosiddetto “controllo di legalità”, o peggio di un semplice requisito di eleggibilità, per eliminare dalla vita pubblica i propri avversari politici? È proprio delle dittature (come dimostrano Iran, Cina, o Birmania con il caso Aung San Suu Kyi) approfittare del “controllo di legalità” per eliminare i dissidenti dalla competizione politica.

Insomma, che i cittadini possano liberamente farsi rappresentare anche da un loro concittadino condannato, una volta espiate le pene stabilite al termine di un giusto processo, è un'utile polizza di assicurazione contro derive autoritarie. La pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici già esiste nel nostro ordinamento, ma giustamente può essere inflitta solo dal giudice naturale e qualsiasi suo inasprimento è sottoposto al principio dell'irretroattività. Se, come sostengono alcuni, la legge Severino stabilisce un requisito di eleggibilità e non introduce una sanzione penale, è ancora più grave la ferita inferta alla nostra democrazia, perché restringendo in modo automatico ed extragiudiziale l'elettorato passivo e attivo, di fatto limita il diritto di voto in via amministrativa. (l'Opinione)

Conflitto d'interessi. Davide Giacalone

 

Provate a immaginare, se ci trovassimo in condizioni “normali”. Che so: alla nascita di un governo di centro destra, quindi presieduto da Silvio Berlusconi, o alla sua caduta; in prossimità di una campagna elettorale o subito dopo il suo esito. E in tale circostanza si diffondesse la notizia che il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, ha riservatamente (ma neanche tanto, visto che lo sanno tutti) incontrato il presidente della Repubblica. Inviato in missione da Berlusconi, o, come è più probabile, in missione autonoma, resasi necessaria per aiutare il suo amico di sempre a ottenere un quale che sia risultato. Ecco, secondo voi, cosa accadrebbe? Quel che è del tutto scontato: si leverebbe un coro vociante e indignato, pronto a esecrare l’ennesimo concretarsi del detestato “conflitto d’interessi”. E invece, oggi, succede il contrario: si guarda alla missione con apprensione e partecipazione, si spera che Confalonieri ce la faccia, che ce la facciano i figli, la famiglia, i colonnelli della prima ora, che tutti loro convincano Lui: guarda il titolo Mediaset, guarda gli affari del nostro gruppo e convinciti che conciliare è meglio che contestare. Il conflitto d’interessi è divenuto il salvagente cui aggrapparsi. Per carità: badi ai propri interessi, sia ragionevole e ci lasci in pace.

Confalonieri è la persona più assennata e ragionevole che io abbia conosciuto. Ce ne fossero. Lo scrivo senza celare l’invidia che mi rode, per quel diploma al conservatorio (con Francesco Saverio Borrelli a esaminarlo, una pagina che vale un romanzo). La sua non è sottile abilità diplomatica: è la potenza della semplicità e della sincerità. E ha fatto breccia, talché dal Colle è giunto un segnale di fiducia in Berlusconi. Fiducia che non ritiri la fiducia, che abbia fiducia e che pensi seriamente agli affari propri. Così l’allucinazione politicista spera che il conflitto d’interessi, dopo essere stato l’innesco della bomba berlusconiana, ne sia anche il disinnesco. Ragionamento che ha un solo difetto: è irreale.

Nel 1994 Berlusconi non vinse perché editore catodico, ma perché solo la sprovveduta arroganza della sinistra ideologica poté pensare che l’elettorato conservatore restasse senza rappresentanza. Essendo maggioranza. A quel tempo il gruppo di Berlusconi era molto indebitato, ma anche molto forte. La quotazione risolse i problemi finanziari, ma fu propiziata non dalle sue vittorie elettorali, bensì dalla sua sconfitta. La sinistra ha sempre sperato che il conflitto d’interessi tornasse utile, nel frattempo sbandierandolo come oscenità. Non funzionò (oggi il gruppo è finanziariamente solido, ma più debole, vendere il ramo televisivo non sarebbe un’amputazione, ma un buon affare). Da allora a oggi non s’è mai regolato seriamente il conflitto d’interessi, ma non perché Berlusconi non ha voluto si nuocesse al suo dominio, piuttosto perché l’Italia è dominata da conflitti d’interesse. Non ce n’è uno, ma tanti. E, del resto, il problema non sono mica gli interessi, senza i quali non c’è mercato, ma neanche democrazia e libertà, ma il conflitto fra quelli particolari e il governo delle cose collettive. Tale conflitto è incancellabile in un Paese di socialismo reale, come l’Italia, in cui lo Stato e le amministrazioni pubbliche occupano più della metà del mercato. La via sana non è quella d’impedire a chi ha attività produttive di fare politica, ma di impedire alla politica di occupare le attività produttive. Vogliamo parlare delle banche? Dell’intreccio con i giornali? Delle fondazioni dominate dai partiti? Nel caso delle televisioni il grande scandalo è l’esatto contrario di quello che i fessi credono sia lo scandalo: la non applicazione della legge 223 del 1990, alias legge Mammì. E’ quello che perpetua il giogo politico sui teleschermi.

Ennio Flaiano scrisse che, in Italia, i problemi non si risolvono: passano di moda. Nella collezione autunno-inverno 2013 il conflitto d’interessi si veste per dare un taglio elegante al presunto senso di responsabilità. Ma guardate che gli italiani che votarono Berlusconi non lo fecero perché aveva le televisioni, e ora non si rassegnerebbero a scomparire, a far la parte degli ostaggi, solo perché qualcuno promette (e vagli a credere) di salvargli gli affari. Ne vedo più di uno cui farebbe bene leggere qualche pagina di storia, non solo la pagina dei programmi tv.

Pubblicato da Libero

martedì 3 settembre 2013

Chi ha paura della firma del Cavaliere. Fabrizio Rondolino


La decisione di Silvio Berlusconi di sottoscrivere tutti i referendum radicali - e non soltanto quelli sulla giustizia - ha subito messo in allarme molti giocatori avversari, nonché un certo numero di arbitri e guardalinee. E il motivo è semplice: con questa mossa, il Cavaliere esce dalla guerra di trincea e, anche sulla giustizia, ingaggia una guerra di movimento. L'appoggio alla causa referendaria trasforma lo scontro sulla decadenza personale di un senatore in una battaglia politica generale sul ruolo, i poteri e i limiti della magistratura nel nostro Paese.

Anche questa scelta, a ben vedere, s'incardina nel progetto di una nuova Forza Italia, più movimentista e corsara dell'ingessato Pdl e più attenta ai diritti dell'individuo, e forse non è un caso che, oggi come agli esordi nel '94, Berlusconi trovi in Pannella un interlocutore e un possibile compagno di strada. Quel che è certo, è che la campagna referendaria modifica gli schemi di gioco e rischia di trasformarsi nell'ennesimo referendum sul Cavaliere: ed è proprio questo che i suoi avversari temono di più.

I primi ad essere in allarme sono naturalmente i Democratici. L'alleanza Pannella-Berlusconi è di per sé motivo di imbarazzo, un po' perché gli altri referendum radicali, firmati anch'essi dal Cavaliere, sposano cause tradizionalmente di sinistra; e un po' perché gli stessi referendum sulla giustizia, nel merito, disegnano una riforma persino meno incisiva di quella proposta dal verde Boato e approvata dalla Bicamerale di D'Alema tre lustri fa. Ma è soprattutto lo scontro diretto con Berlusconi, senza intercapedini politiche o partitiche, a spaventare la sinistra: che, come per un riflesso pavloviano, alza immediatamente i toni e addirittura mette sotto processo un dirigente storico (ed ex magistrato) come Violante, reo di aver rivendicato il diritto di Berlusconi alla difesa.

Non meno preoccupato è Enrico Letta, e con lui le ali governative dei due maggiori partiti della coalizione. Ai loro occhi, il referendum è una specie di piano B, pronto a scattare se non ci saranno nuove elezioni a breve. Si terrebbe infatti nella primavera dell'anno prossimo, alla vigilia o subito dopo le elezioni europee, sottoponendo il governo ad una pressione permanente e la maggioranza a tensioni continue. Uno scenario di questo genere, com'è ovvio, non piace neppure al Quirinale. Proprio Napolitano, però, all'indomani della condanna di Berlusconi in Cassazione aveva richiamato la maggioranza alla necessità di una riforma della giustizia, raccogliendo gli applausi del Pdl e l'imbarazzato silenzio del Pd. La mossa referendaria è anche un modo per riaprire bruscamente quel capitolo, passato rapidamente in secondo piano, inchiodando sia il Quirinale sia la maggioranza alle proprie responsabilità e riaprendo in Parlamento, nell'anno che ci separa dal voto, il capitolo giustizia.

E poi, naturalmente, ci sono i magistrati, o per meglio dire quella parte di pubblici ministeri che hanno del proprio mestiere una concezione catartica e messianica, sovraordinata alle istituzioni democratiche e per questo chiamata ad una vigilanza continua e pressante sulla politica, o almeno su una sua parte. È proprio questo settore della magistratura a difendere più strenuamente l'unicità delle carriere - che è un unicum italiano - e a combattere ogni forma di responsabilità civile. Per loro lo scontro con Berlusconi è prima di tutto una difesa a oltranza dei propri privilegi, a cominciare da una sostanziale irresponsabilità e inamovibilità.

Con l'appoggio ai referendum Berlusconi ha dunque aperto un secondo forno - nel primo sta cuocendo la maggioranza sulla politica economica e sulle tasse - destinato a surriscaldare una coalizione non propriamente compatta. La scelta della guerra di movimento, del resto, moltiplica i focolai di scontro, accentua la tensione politico-istituzionale. Insomma, per dirla con Berlinguer, avremo nei prossimi mesi un Berlusconi di lotta e di governo. (il Giornale)

lunedì 2 settembre 2013

ArchivioBordin Line

2 settembre 2013

Capisco, perché li conosco, la “grande soddisfazione” di Filomena Gallo e Marco Cappato dell’associazione “Luca Coscioni” per il laticlavio a vita alla ricercatrice Elena Cattaneo che ha condiviso alcune loro battaglie per la libertà di ricerca. Mi pare logico che siano soddisfatti, e io con loro. Peraltro a quella nomina si sono fermati, dopo averla celebrata con sobrietà. Mi pare invece imbarazzante l’escalation di aggettivi dedicati alle quattro nomine complessivamente intese da autorevoli esponenti e parlamentari del Pd. Bersani ha parlato di un “segnale bellissimo”, Realacci di “eccezionale qualità” e Zanda avrebbe potuto apparire definitivo definendo l’operazione “impeccabile” se non fosse stato superato in assertività da Epifani, che in qualità di segretario pensava di suggellare il tutto definendolo “indiscutibile” ma esponendosi così alla chiosa del senatore Marcucci “non si poteva fare di meglio”. E qui ci si sarebbe potuti finalmente fermare, se non che, per competenza territoriale, ha pensato di dire la sua anche il presidente del Senato Grasso. “Diventino i nostri punti di forza”, ha scandito. Ovviamente intendeva riferire l’aggettivo possessivo all’intera Assemblea, ma l’espressione aveva una sua ambiguità a proposito della maggioranza, potenzialmente difficile, dell’Assemblea stessa. Bravissimo magistrato che come politico non riesce a scrollarsi la fama di gaffeur.
di Massimo Bordin@MassimoBordin