Per inquadrare il personaggio, sarebbero sufficienti le parole scritte da Carlo Vulpio sul suo blog. Testualmente: «è soltanto un modesto e vacuo retore, un finto colto, un poetastro che vorrebbe far credere d’essere un poeta, un politico vecchio, anzi vecchissimo, e tuttavia furbo, capace di “chiagnere e fottere” alla grande, al punto – per esempio – da avere la faccia tosta, ma così tosta (oltre che verdastra, di livorosa bile da indigestione di potere, si potrebbe presumere) da cavalcare la tragedia dell’Ilva che proprio lui, con la sua legge truffa sulle emissioni di diossina ha contribuito a tenere occultata e quindi a perpetrare. La specialità di questo tizio è capovolgere i ruoli (specialmente il suo) in commedia».
L’istantanea di Nicola ‘Nichi’ Vendola che ne scaturisce è talmente perfetta quasi da far credere che Vulpio, più che un giornalista, sia un fotografo-ritrattista di lunga e comprovata esperienza.
E’ potente il governatore pugliese: ha le amicizie giuste così come i giudici appropriati al momento opportuno, la sorella si è rivelata un’ottima PR, consuma i pasti con gli adeguati commensali, con una percentuale di voti del suo partito intorno al 3% è riuscito ad ottenere addirittura la presidenza della Camera dei Deputati. Che dire? E’ perfetto ed anche possente il Vendola.
E se poi magari qualcuno si dovesse permettere di far notare che qualcosa (forse) non va nei suoi comportamenti, il viaggio di sola andata in direzione Roma, per il coraggioso delatore, è assicurato: lo offre direttamente il governatore. (LS Blog)
martedì 30 luglio 2013
lunedì 29 luglio 2013
Dagherrotipo d'Italia. Davide Giacalone
I redditi dei ministri sono un dagherrotipo d’Italia. Non il color seppia della nostalgia, ma un sentore d’arretratezza. L’Italia al governo è quella statale e burocratica. Quella che ancora corre, compete e vince non c’è. Potrebbe anche andare bene, se fosse una distinzione dei ruoli e una rappresentanza delegata degli interessi vitali. Invece è la mera prevalenza della macchina statale sulla pur esistente energia vitale.
Vanno presi in considerazioni tre aspetti. Non m’interessa qui valutare la correttezza delle dichiarazioni (taluni l’hanno messa in dubbio). Considero scontato (spero) che nessuno abbia mentito. Né interessano qui i nomi e le quote di reddito, facilmente rintracciabili. E’ l’insieme a fornire il ritratto interessante.
1. I ministri “ricchi” sono gli statali. I redditi più alti sono dichiarati da burocrati e magistrati, che hanno fatto con eccellenza e merito il loro mestiere, ma sempre a ridosso della spesa pubblica. Esclusa l’ipotesi che altri colleghi abbiano dichiarato il falso, ciò statuisce che il modo migliore per diventare ricchi e potenti consiste nel farsi assumere nella pubblica amministrazione. Sconsolante.
Si badi: i ministri sono burocrati e magistrati giunti al più alto livello della carriera, quindi pure dello stipendio (o della pensione), ma il criterio vale anche per i livelli più bassi: un impiegato pubblico gode di maggiore sicurezza rispetto a uno privato, mentre i suoi redditi, negli anni della crisi e nel decennio che l’ha preceduta, sono cresciuti di più. E più dell’inflazione. Ci sono mestieri pubblici che vanno premiati, da quello degli insegnanti a quello degli infermieri, ma i soldi sono stati distribuiti senza alcuna valutazione del merito individuale. Un cattivo esempio.
2. I parlamentari vivono per la quasi totalità dell’emolumento parlamentare. Va bene, perché se fai seriamente e a tempo pieno quel mestiere è difficile che ti rimangano spazi per coltivare altre attività. Qui, però, varrebbe la pena di allargare l’obbligo di dichiarazione e fornire una serie storica (io, come tutti quelli che pagano le tasse, sono in grado di farlo in poche ore, giusto il tempo di recuperare le dichiarazioni degli ultimi 5, 10 o 20 anni, e se fossi preso da terribili amnesie ci sarebbe l’Agenzia delle entrate pronta a soccorrermi). Ciò perché se si tratta di persone che sempre vissero di politica è segno che neanche loro hanno mai sperimentato l’ebrezza del lavoro in un mercato aperto alla concorrenza.
3. Nulla di male a essere nullatenenti. Ma è strano che, in un Paese di proprietari di case, si arrivi in cima alle stanze del potere essendo riusciti a non costruire o accumulare nulla. Può darsi siano francescani, ma è più probabile che abbiano diversamente intestato i beni. Regolare, spero, ma da dichiarare.
Dal dagherrotipo si passi al digitale e instagram, il che comporta anche un sistema fiscale meno punitivo per il rischio e il merito. Ciò non comporta punire le mezze maniche, ma neanche favorire le mezze cartucce.
Pubblicato da Il Tempo
martedì 23 luglio 2013
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23 luglio 2013
Punto uno: Ottaviano Del Turco è stato condannato a 9 anni e sei mesi di galera nel processo per le tangenti nel mondo della sanità abruzzese. Punto due: era stato accusato di aver intascato 6 milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione personale. Punto tre: di quel denaro, o meglio, di tutto quel denaro, non è stato rintracciato un euro, in cinque anni. Punto quattro: “Si possono anche non trovare i soldi – ha detto l’avvocato Giandomenico Caiazza, legale di Del Turco – ma almeno le tracce, quelle si dovrebbe”. Nemmeno le tracce. Punto cinque: nel leggere la sentenza, il presidente del tribunale di Pescara, Carmelo De Santis, ha attribuito a Del Turco una condanna a 9 anni e 9 mesi, invece che a 9 anni e 6 mesi come si legge nel dispositivo. Punto sei: sul forum del Corriere della Sera un lettore, presumo di destra, ha commentato: “Sentenza ineccepibile e surrogata da prove inoppugnabili. Dimostrazione plastica di quanto il Pd sia peggio del Pdl”. Punto sette: visto l’affollamento di stronzate, eviterei per oggi di scrivere la mia.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
lunedì 22 luglio 2013
Archivio› Andrea's Version

21 luglio 2013
Non si può pretendere troppo dalla vita, ma se mi fosse dato di transitare da una favola, e potessi tenere per un attimo tra le mani la lampada di Aladino, e sfregarla ben bene, e ne spuntasse fuori il genio, e ci potessi parlare, e lui si rivolgesse proprio a me, chiedendomi cosa desidero sopra ogni cosa, e io m’impigliassi nei troppi desideri che si affollerebbero, ma il genio si mostrasse paziente, e mi invitasse a scegliere con calma, e fossi a quel punto capace di scartare una dopo l’altra le avidità più sciocche, e le cupidigie più vacue, e le brame più strampalate, e riuscissi a concentrarmi davvero sulla cosa cui tengo di più, e addirittura osassi richiederla, allora esprimerei il desiderio di poter sostituire l’attuale ministro degli Esteri con uno che avesse le famosissime palle di Emma Bonino.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Spioni spiati. Davide Giacalone
La condanna di Marco Tronchetti Provera è paradossale. A tratti anche divertente, benché ci sia da dubitare che lui ne apprezzi tale sfumatura. Il lettore gusti la particolarità: il vertice di Brasil Telecom diede mandato a una società di spioni (autorizzati, stimati e quotati, la Kroll) di scandagliare le faccende di Telecom Italia, non escluse quelle private di capi e azionisti; la brigata spiona trova sulla sua strada dei colleghi (non autorizzati e illecitamente all’opera), che si frega il lavoro fin lì svolto; siccome il frutto del furto finisce a Tronchetti Provera (che sostiene di essersi limitato a fare denuncia) questi, adesso, deve risarcire chi, allora, cominciò a spiare. Non strappa un sorriso? Il resto no, il resto è la storia di una tragedia: di come la nostra più importante multinazionale, Telecom Italia, è stata distrutta.
I lettori dotati di memoria non si stupiscano: sono la stessa persona che per denunciare questi intrallazzi ha scritto molti articoli e due volte un libro (due volte perché quei mattacchioni degli spioni Telecom mi distrussero il computer, costringendomi a ricominciare da capo). Non ho cambiato idea. Ma la guerra per bande mi ripugna, anche quando mi è toccato subirla da parte di chi, oggi condannato, pretendeva d’iscrivermi a quella avversa. Non l’antefatto, ma il vero e unico fatto che sta dietro questa storia cominciò a raccontarlo per primo, su Libero, Fausto Carioti. Dieci anni fa. Dieci. Nel 2004 pubblicai un libro (Razza Corsara) non smentito. Quel che raccontavamo, però, non è la guerra degli spioni, che fu guerra ridicolissima, ma le operazioni che servirono per spolpare Telecom Italia, lasciando fuoriuscire fiumi di denaro. Operazioni iniziate prima che arrivasse Tronchetti Provera, ma da lui non fermate.
Noi raccontavamo, ma nessuno interveniva. Il ruolo di chi scrive e documenta i propri racconti, nel campo economico, non è quello di produrre notizie di reato, che divengono tali solo all’estrema patologia, ma di mettere sull’avviso l’intero sistema Paese. Chi non ha la vocazione del ricattatore, o dell’aggiotatore, non manda avvisi, pubblica notizie e chiavi d’interpretazione. Poteva darsi che scrivessimo corbellerie (invece i fatti ci diedero fin troppa ragione), ma ci sono organi di garanzia, interni ed esterni a una società quotata in Borsa, che avevano il dovere d’intervenire. Nulla. Investimenti a dir poco pazzeschi, finiti con la sparizione dei soldi, furono fatti passare per errori, se non per frutti del tempo. Il gioco corsaro continuò fino al punto di pretendere di pestare i piedi a un giocoliere della finanza: Daniel Dantas. Un virtuoso della materia (che in quella circostanza conobbi). I vertici di Telecom si comportarono come uno che entra in un pollaio e cerca di spiegare al gallo come si canta, o che prende un gatto e gli dice: adesso t’insegno ad arrampicare. Da lì nacquero gli spioni e, nello specifico, il più grosso errore di Tronchetti Provera: pensare di potere giocare al gioco del lestofante, con la pretesa di vincerlo. Lo perse, anche perché i lestofanti li aveva in casa. Noi lo scrivevamo e se avessero letto, anziché ciucciarsi via la memoria del computer, ne avrebbero tratto giovamento.
Perdiamo tutti. Perché il gigante Telecom, costruito con i soldi degli italiani, che in America Latina era partito grazie ai soldi dei nostri emigranti (mi vengono i brividi a pensarci), è ridotto a una larva indebitata e sottocapitalizzata. La peggiore privatizzazione della storia incontrò le peggiori gestioni private. Puntate l’orologio: fra poco crolla quel che ancora resta. E perdiamo anche perché questa storiaccia ha trasformato in olimpiade dei maneggioni la più grande Opa della nostra storia e in condannato uno dei nostri migliori manager.
Marco Tronchetti Provera resta un presunto innocente. Credo che la sentenza sarà riformata, comunque glielo auguro. Mai avuto nulla di personale (troppo faticoso coltivare risentimenti, inoltre giro con un’ottima moto della Piaggio!). Noi tutti, però, l’innocenza l’abbiamo persa da un pezzo e ogni giorno la mandiamo al rogo nel rassegnarci a vivere senza vera giustizia. Questa storia doveva chiudersi nel 2004: o eravamo noi diffamatori, oppure quell’andazzo andava bloccato. Dieci anni dopo non si chiama giustizia, ma autopsia. E se il tavolaccio autoptico trova che lo spiato (a sua volta spione) debba risarcire lo spione (a sua volta spiato), che ve devo di’? Prosit.
Pubblicato da Libero
I lettori dotati di memoria non si stupiscano: sono la stessa persona che per denunciare questi intrallazzi ha scritto molti articoli e due volte un libro (due volte perché quei mattacchioni degli spioni Telecom mi distrussero il computer, costringendomi a ricominciare da capo). Non ho cambiato idea. Ma la guerra per bande mi ripugna, anche quando mi è toccato subirla da parte di chi, oggi condannato, pretendeva d’iscrivermi a quella avversa. Non l’antefatto, ma il vero e unico fatto che sta dietro questa storia cominciò a raccontarlo per primo, su Libero, Fausto Carioti. Dieci anni fa. Dieci. Nel 2004 pubblicai un libro (Razza Corsara) non smentito. Quel che raccontavamo, però, non è la guerra degli spioni, che fu guerra ridicolissima, ma le operazioni che servirono per spolpare Telecom Italia, lasciando fuoriuscire fiumi di denaro. Operazioni iniziate prima che arrivasse Tronchetti Provera, ma da lui non fermate.
Noi raccontavamo, ma nessuno interveniva. Il ruolo di chi scrive e documenta i propri racconti, nel campo economico, non è quello di produrre notizie di reato, che divengono tali solo all’estrema patologia, ma di mettere sull’avviso l’intero sistema Paese. Chi non ha la vocazione del ricattatore, o dell’aggiotatore, non manda avvisi, pubblica notizie e chiavi d’interpretazione. Poteva darsi che scrivessimo corbellerie (invece i fatti ci diedero fin troppa ragione), ma ci sono organi di garanzia, interni ed esterni a una società quotata in Borsa, che avevano il dovere d’intervenire. Nulla. Investimenti a dir poco pazzeschi, finiti con la sparizione dei soldi, furono fatti passare per errori, se non per frutti del tempo. Il gioco corsaro continuò fino al punto di pretendere di pestare i piedi a un giocoliere della finanza: Daniel Dantas. Un virtuoso della materia (che in quella circostanza conobbi). I vertici di Telecom si comportarono come uno che entra in un pollaio e cerca di spiegare al gallo come si canta, o che prende un gatto e gli dice: adesso t’insegno ad arrampicare. Da lì nacquero gli spioni e, nello specifico, il più grosso errore di Tronchetti Provera: pensare di potere giocare al gioco del lestofante, con la pretesa di vincerlo. Lo perse, anche perché i lestofanti li aveva in casa. Noi lo scrivevamo e se avessero letto, anziché ciucciarsi via la memoria del computer, ne avrebbero tratto giovamento.
Perdiamo tutti. Perché il gigante Telecom, costruito con i soldi degli italiani, che in America Latina era partito grazie ai soldi dei nostri emigranti (mi vengono i brividi a pensarci), è ridotto a una larva indebitata e sottocapitalizzata. La peggiore privatizzazione della storia incontrò le peggiori gestioni private. Puntate l’orologio: fra poco crolla quel che ancora resta. E perdiamo anche perché questa storiaccia ha trasformato in olimpiade dei maneggioni la più grande Opa della nostra storia e in condannato uno dei nostri migliori manager.
Marco Tronchetti Provera resta un presunto innocente. Credo che la sentenza sarà riformata, comunque glielo auguro. Mai avuto nulla di personale (troppo faticoso coltivare risentimenti, inoltre giro con un’ottima moto della Piaggio!). Noi tutti, però, l’innocenza l’abbiamo persa da un pezzo e ogni giorno la mandiamo al rogo nel rassegnarci a vivere senza vera giustizia. Questa storia doveva chiudersi nel 2004: o eravamo noi diffamatori, oppure quell’andazzo andava bloccato. Dieci anni dopo non si chiama giustizia, ma autopsia. E se il tavolaccio autoptico trova che lo spiato (a sua volta spione) debba risarcire lo spione (a sua volta spiato), che ve devo di’? Prosit.
Pubblicato da Libero
giovedì 18 luglio 2013
Oltre Mori. Davide Giacalone
La nostra vita pubblica è punteggiata da indagini e processi. Più indagini e arresti che non sentenze. Purtroppo. La politica si ripiega sulle proprie faccende penali, come fossero le più importanti. Non è così: i Carabinieri che hanno svolto una funzione nell’indagare e colpire la mafia hanno subito così tanti e così diversi processi da imporci di leggerne l’insieme come un vero e proprio tentativo di demolizione dell’Arma. Ieri l’assoluzione del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, accusati di avere favorito la mafia, non catturando Bernardo Provenzano, potrebbe far tirare un sospiro di sollievo. Ma sarebbe un errore.
Va preso il fiato, ma per cominciare a far piena luce su quella stagione palermitana, sull’indagine mafia-appalti, che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vollero è che fu insabbiata e distrutta a poche ore dalla morte del secondo. Si deve dipanare la matassa aggrovigliatasi nella procura di Palermo (di allora) e poi gelosamente preservata da indagini serie. Va studiata la trama che ha portato i Carabinieri, da Mori a Carmelo Canale, a essere accusati di mafia, per essere sempre tutti assolti.
Oggi sarebbe naturale complimentarsi con Mori e Obinu per la loro condotta, anche processuale. Ma non basta. Sulle loro teste, con la pretesa di farle cadere, è passata una stagione che deve essere dissolta. Alla luce. Perché di danni se ne sono già fatti molti. Si è infangata la memoria dei migliori e corrotta quella collettiva, si è depistata l’opinione pubblica e avvelenata l’antimafia. E’ ora di tornare al rigore e alla serietà.
Pubblicato da Il Tempo
Va preso il fiato, ma per cominciare a far piena luce su quella stagione palermitana, sull’indagine mafia-appalti, che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vollero è che fu insabbiata e distrutta a poche ore dalla morte del secondo. Si deve dipanare la matassa aggrovigliatasi nella procura di Palermo (di allora) e poi gelosamente preservata da indagini serie. Va studiata la trama che ha portato i Carabinieri, da Mori a Carmelo Canale, a essere accusati di mafia, per essere sempre tutti assolti.
Oggi sarebbe naturale complimentarsi con Mori e Obinu per la loro condotta, anche processuale. Ma non basta. Sulle loro teste, con la pretesa di farle cadere, è passata una stagione che deve essere dissolta. Alla luce. Perché di danni se ne sono già fatti molti. Si è infangata la memoria dei migliori e corrotta quella collettiva, si è depistata l’opinione pubblica e avvelenata l’antimafia. E’ ora di tornare al rigore e alla serietà.
Pubblicato da Il Tempo
mercoledì 17 luglio 2013
La parolaccia. Davide Giacalone
Il problema non è Roberto Calderoli, che gli oranghi è in grado di farli rimpiangere. Per la raffinatezza del loro ragionare e l’eleganza del loro eloquio. Il problema è tutta intera una vita pubblica che a forza d’inseguire il linguaggio del bar è precipitata in quello della bettola. Quella d’ora tarda, quando gli ultimi avventori sono anche i più intossicati. Gli accostamenti animaleschi sono da ora di ricreazione nella scuola elementare e, nell’inescusabilità di quel che Calderoli ha detto, gli va riconosciuto il merito di avere chiesto scusa. Vale quel che vale, ma faccio osservare che la scena è piena di gente che ne dice di peggiori e non solo non chiede scusa, ma si ritrovano sulle prime pagine. Senza scandalo. Meglio non dimenticare che il più riuscito capo politico dell’ultimo anno, il vincitore morale delle scorse elezioni politiche, Giuseppe Grillo, non riesce a compitare una frase senza infilarci un’oscena percentuale di turpiloquio.
La parolaccia segnala un comune sentire di mondo politico e società civile, o, meglio, incivile. Prima di decrittarne la portata, però, mi tocca un breve inciso: considerai male la nomina di una ministro nera al ministero dell’integrazione e considerai sbagliate le sue prime proposte politiche, ribadisco quei giudizi, accompagnandoli con la condanna delle caldarolate. Aggiungo che la reazione di Cecile Kyenge alle parole di Calderoli denotano notevole avvedutezza, ovvero l’opposto di quel che lo stesso ministro dimostrò pretendendo di non stringere la mano a un rappresentate del popolo italiano. Se ha imparato, me ne compiaccio.
Torno alla parolaccia. Quando è d’uopo il linguaggio paludato può capitare che il ricorso a un termine forte sia utile a rompere la stagnazione o a segnalare qualche idea forte. Quando, all’opposto, ci si fa forti delle parole troppo colorite è segno che le idee si sono sbiadite fino a scomparire. Tale fenomeno involutivo è utile per capire la ragione che colloca la società italiana in uno stallo senza apparente via d’uscita. Spesso ci si domanda: ma come è possibile che la classe dirigente non si accorga di quel che è evidente? Perché non si fanno le cose necessarie? Perché non si ascolta la gente, che ben conosce i problemi reali? Risposta: perché incapacità e viltà sono ben distribuite, dal vertice alla base. Come le parolacce.
Qualche tempo addietro mi stupii d’essermi rilassato e divertito alla vista di un film di Ficarra e Picone. Solo alla fine mi resi conto della particolarità: non c’erano parolacce. Ciò me lo faceva passare da bello a sublime. Perché anche la comicità, quasi tutta super politicizzata, non sa più fare a meno del vocabolo triviale, al cui ricorrere scattano subito gli applausi televisivi. Falsi di una falsità imbarazzante. Dai comici al cittadino che vuol mostrare la propria indignazione si passa senza che cambi il vocabolario. Non basta dire che il Tale dovrebbe essere rimosso, lo si deve ingiuriare e desiderare impalato. Altrimenti l’idea non si rende. Da qui poi parte un fenomeno noto: arriva qualcuno e diventa interprete di quel linguaggio, a sua volta ripetuto dall’informazione e accettato come normale. Quei leaders naturali trovano in seguito seguaci ed emuli, fino allo scadere in bettola per avvinazzati terminali. Contro tutti loro non si scatena la reazione delle persone dabbene, ma quella assai più forte ed evidente della bettola concorrente. L’alito che ne emana è complessivamente mefitico.
La volgarità del vocabolo è prodotto e produce volgarità del pensiero. Oramai è più facile che ti apprezzino o detestino per dove scrivi, piuttosto che per cosa scrivi. E se dal tuo dire non si capisce bene da che parte stai, dando per assodato che se non stai dichiaratamente da una parte è segno che sei un venduto alla parte opposta, allora te lo chiedono, procedendo poi con il pregiudizio già confezionato. L’Italia fascista era così, sebbene usasse un vocabolario più fantasioso: memorabile il mussoliniano “panciafichisti”. La derisione dell’altro era il collante della truppa. Quell’Italia profonda è tornata a galla. A sganciarla dal fondo, ove con vergogna era stata ancorata, fu il biennio giustizialista del 1992-1994. Dal cappio d’allora ai manipoli sboccati è stato un percorso inglorioso, cui non si sono sottratti in molti.
Va bene, ci sto: datemi pure del boccuccia. Gliecché vedo avanzare lo schiacciasassi sull’Italia che ha troppo da fare per potersi sboccare e non credo proprio che serva a nulla far le boccacce a quel pericolo. Suggerisco, però, di valutare l’ipotesi che le idee sane non hanno bisogno di linguaggi malati, mentre le parole violente possono anche essere prive d’idee, ma non per questo incapaci di generare violenza. Gli oranghi lo sanno, per questo si battono il petto evitando di scannarsi a vicenda. Che invidia.
Pubblicato da Libero
giovedì 11 luglio 2013
Stenografico della dichiarazione spontanea di Silvio Berlusconi al processo "Ruby"
Signor Presidente
Signore del Collegio
Come
sapete questo processo si basa su due punti fondamentali: la mia telefonata
della notte fra il 27 ed il 28 maggio 2010 alla questura di Milano e i miei
rapporti con Karima El Mahroug
detta Ruby.
In
realtà l’erroneo e pretestuoso filo conduttore di entrambi i capi di
imputazione è rappresentato dalle serate che si sono svolte nella mia casa di
Arcore: secondo l’accusa avrei telefonato in Questura per evitare che si
conoscesse il contenuto di tali serate.
Cominciamo
quindi dalle serate.
Si
è molto favoleggiato ed ironizzato su queste serate, con evidenti intenti
diffamatori e con una intrusione nella
vita privata di un cittadino che davvero non ha precedenti.
Voi
ascolterete i testimoni e comprenderete qual’ era davvero la realtà.
Le
cene si svolgevano in una grande sala da pranzo, un grande tavolo accoglieva
tutti gli ospiti insieme, io al centro della tavolata monopolizzavo la
conversazione parlando di tutto: di politica, di sport, di cinema, di
televisione, di gossip e mi divertivo confezionando battute e cantando, a
richiesta, le canzoni del mio repertorio giovanile e quelle scritte da me in
collaborazione con Mariano Apicella.
Apicella
si esibiva col suo fantastico repertorio di canzoni napoletane così come il
maestro Danilo Mariani che suonava e cantava quasi sempre accompagnato dalla
moglie, anch’essa cantante professionista.
Di
volta in volta intervenivano alle cene altri cantanti ed altri strumentisti.
Dopo
la cena alcune volte le mie ospiti organizzavano nel teatro della residenza
degli spettacoli con musica e costumi, spettacoli che non avevano alcunché di
volgare e scandaloso. E a proposito della dizione “Bunga Bunga” questa espressione
nasce da una vecchia battuta che ho ripetuto più volte prima dei fatti
contestati ed è stata riportata doviziosamente dalla stampa.
Altre
volte nella discoteca che era stata dei miei figli si ballava (io però non ho
mai partecipato ad alcun ballo) ed accadeva quello che si può vedere in
qualsiasi locale aperto al pubblico di ogni età.
Posso
quindi escludere con assoluta tranquillità che si siano mai svolte scene di
tipo sessuale imbarazzanti. Tutto tra l’altro avveniva alla presenza di
camerieri, musicisti, personale di sicurezza, ospiti di una sola serata e, a
volte, con l’intervento di miei figli, che venivano a salutarmi.
E’
quindi evidente che non avevo alcun interesse a chiedere alla Questura
comportamenti diversi da quelli previsti dalla legge. Di tanto che non ho
svolto mai alcuna pressione nei confronti del funzionario della Questura che ho
avuto al telefono, al quale come da lui stesso affermato, mi sono limitato a
dare e a chiedere una semplice informazione.
Ma
al di là dei dati oggettivi processuali vi è una considerazione preliminare che
è assorbente. Ipotizzare che volessi mantenere segreto lo svolgimento di quelle
serate è palesemente risibile.
Basta
leggere i giornali antecedenti al 27 maggio 2010 per comprendere come la mia
vita privata sia sempre stata oggetto di una spasmodica e quasi maniacale
attenzione mediatica.
Già
tutto si era letto delle mie serate a Roma, delle cene a Villa Certosa in
Sardegna e nelle mie altre residenze, Arcore compresa, con pubblicazione
addirittura di libri, con la illegittima pubblicazione di intercettazioni
ambientali, di intercettazioni telefoniche, di reportage fotografici sottratti
alla mia privacy.
Voglio
anche ricordare che di fronte ai cancelli di tutte le mie residenze
stazionavano permanentemente, oltre al presidio dei Carabinieri, frotte di fotografi e cameramen, giorno e
notte.
Su
queste cene dunque, sulle mie frequentazioni, sui miei ospiti, si è parlato,
scritto e disquisito largamente.
Tutto
ciò era già accaduto nel periodo anteriore al 27 maggio 2010, periodo durante il quale ho ricevuto, nella
massima trasparenza e senza alcuna segretezza ospiti nelle mie residenze.
Parimenti
nel periodo successivo e anche dopo che era emerso sui giornali il cosiddetto
caso “Ruby”, io ho continuato a condurre come al solito la mia vita di
relazione.
Tanto
ero tranquillo del contenuto di queste serate che
mai
ho disposto controlli o perquisizioni sui miei ospiti.
Mai
ho chiesto ai miei ospiti di consegnare i telefonini per evitare registrazioni
o fotografie, perché nulla di men che lecito o di irriferibile poteva accadere.
Mai
ho chiesto ai miei ospiti di tenere riservati gli accadimenti delle serate
perché non c’era nulla che potesse preoccuparmi e le stesse serate costituivano
soltanto dei momenti di svago conviviale dopo intere di settimane di lavoro.
Ecco
perché è fuori da ogni logica e da ogni ragionevolezza collegare la mia
telefonata del 27 Maggio in Questura al timore che Ruby potesse raccontare
qualcosa di segreto, o di scandaloso su queste serate.
E
del resto se avessi avuto questa preoccupazione mi sarei attivato anche la
settimana successiva al 27 maggio quando ebbi notizia che Ruby stesse ancora
per essere affidata ad una comunità-famiglia di Genova.
- o - o -
Voglio
innanzitutto ricordare, nei limiti del possibile, come ho conosciuto Karima El
Mahroug cioè Ruby.
Qualche mese prima dei fatti accaduti il 27
maggio Ruby era intervenuta ad una cena presso la mia residenza in Arcore.
Non
ricordo con chi venne questa prima volta, forse con Lele Mora. E’ da tener
presente che proprio perché durante queste serate amicali non avevo nulla da
nascondere, accadeva spesso che i miei ospiti si facessero accompagnare da
qualche amico o amica con un semplice preavviso telefonico alla mia segreteria.
In
quell’occasione Ruby attirò su di sè l’interesse e l’attenzione di tutti i
commensali raccontando la sua storia.
Ci
disse di essere di nazionalità egiziana, figlia di una famosa cantante
anch’essa egiziana appartenente ad una importante famiglia imparentata col Presidente
Moubarak.
Ci
fece vedere un video con questa cantante che effettivamente aveva qualche
somiglianza con lei.
Tali
circostanze Ruby le ribadì sempre anche nelle serate successive.
Ci
raccontò di essere stata buttata fuori casa dal padre che l’aveva anche
picchiata, ci fece vedere una vasta cicatrice sulla testa procuratale dal padre
con un getto di olio bollente, il tutto ci disse a causa della sua decisione di
convertirsi alla religione cattolica.
Ci
narrò di molte sue tristi peripezie e infine ci raccontò di essere arrivata a
Milano un mese prima e di essere stata ospitata da un’amica.
Una
sera questa amica, dopo un litigio, le fece trovare la porta chiusa con le sue
valigie fuori dalla porta.
Ci
raccontò di essere uscita sulla strada e di essere rimasta seduta a piangere
sulle sue valigie sotto la pioggia, per tre ore, essendo senza un soldo e non
sapendo che fare.
Finalmente
un taxi si fermò, il conducente ne discese e le chiese se avesse bisogno di
aiuto. Lei piangendo gli raccontò di non sapere dove andare a dormire e di
essere senza soldi. Lui si commosse e la portò a casa sua, comportandosi da
vero gentiluomo. Nei giorni seguenti le trovò un lavoro da cameriera nel
ristorante di un suo conoscente.
Lei
iniziò a lavorare in questo ristorante ma il proprietario non le dava pace, la
tormentava e voleva avere rapporti intimi con lei.
Questa
era la storia che lei ci rappresentò piangendo e facendo commuovere molti tra i
miei ospiti.
Le
offrii subito un aiuto economico per il suo sostentamento e per cercarsi una
casa in locazione e le assicurai di poter contare sul mio interessamento e sul
mio aiuto.
Fece
conoscenza con alcune delle mie ospiti ed in seguito intervenne con loro ad
altre cene a casa mia.
Durante
una di queste occasioni mi raccontò di avere l’opportunità di entrare come
socia in un “centro estetico” di una sua amica, in via della Spiga a Milano. Mi
mostrò un lungo elenco di laser e di altre apparecchiature che le avrebbero
consentito di diventare socia della sua amica al 50%.
Il
costo di quelle apparecchiature era di 57.000 euro. Mi chiese se potevo farle
un prestito assicurandomi che con gli utili della sua attività mi avrebbe reso
l’intera somma. Io la inviai dal mio amministratore che le consegnò quanto
richiesto. Lo feci convinto che questo fosse proprio il mezzo per consentirle
una vita decorosa senza dover subire accadimenti quali quelli da lei narrati.
Proprio
il contrario di quello di cui vengo paradossalmente accusato.
Desidero
anche ricordare che tutti avevamo l’assoluto convincimento che Ruby fosse
maggiorenne, sia perché lei aveva detto a tutti di avere 24 anni, sia per il
suo modo di esprimersi proprio di una ragazza matura, sia per il suo aspetto
fisico che non corrispondeva assolutamente a quello di una minorenne, sia
perché mai avrei pensato che una minorenne potesse intraprendere una attività
come quella che le avevo finanziato.
Inutile
dire che non ho avuto alcun tipo di rapporto intimo con lei e che, durante la
sua permanenza alle cene, non vi sono mai stati accadimenti di natura men che
lecita.
E’
anche per questo che qualsiasi ricostruzione tesa a ipotizzare che
successivamente avrei offerto del denaro a Ruby perché non raccontasse cosa
fosse accaduto durante quelle serate, è palesemente priva di fondamento.
Come
risulta dagli atti, Ruby infatti aveva già reso amplissime dichiarazioni di
totale e pura fantasia, alcune delle quali certamente a me non favorevoli,
quantomeno sotto l’aspetto mediatico. Debbo quindi ritenere che quando Ruby in
qualche conversazione telefonica aveva fatto riferimento a somme di denaro che
pensava di poter ottenere da me si trattasse di sue fantasie prive di qualsiasi
aggancio fattuale o verosimilmente di propositi che qualcuno potrebbe averle
suggerito per ottenere dei vantaggi economici e magari per trattenere per sé
una parte di questi vantaggi.
L’unico
timore che io avrei quindi potuto avere in questa vicenda non è già che Ruby
raccontasse il vero, ma che Ruby o chi per lei si inventasse cose non vere, che
sarebbero state certamente utilizzate contro di me.
Ripetendomi, posso confermare ancora una volta che mai ho avuto
rapporti intimi di qualsiasi tipo con Ruby, della cui minore età comunque non
ero assolutamente a conoscenza, essendo anzi convinto che avesse 24 anni, così
come da lei stessa dichiarato. E ancora, che mai ho avuto preoccupazione alcuna
che si potessero inventare e narrare da parte dei miei ospiti degli accadimenti
indecenti occorsi durante le serate che si svolgevano presso la mia abitazione.
Venendo
ai fatti del 27 maggio 2010 cercherò nel limite dei miei ricordi, di offrirvi
elementi utili per la ricostruzione dell’accaduto anche se obiettivamente si
trattava di un episodio marginale rispetto alle mie molteplici incombenze e
attività da Presidente del Consiglio.
Debbo
ricordare innanzitutto che quel giorno, il 27 maggio appunto, presiedetti a
Parigi una importante riunione dell’OCSE cui partecipavano oltre cinquanta
Stati.
Ero
partito quella stessa mattina da Roma con l’On. Valentino Valentini, con i miei
consiglieri diplomatici e con il personale addetto alla mia sicurezza.
Nel
corso della serata ricevetti alcune chiamate riguardanti la vicenda oggetto di questo processo. Il cellulare
a cui pervennero queste chiamate era in possesso del mio capo scorta o del mio
staff.
Dagli
atti del processo ho poi rilevato che il telefonino aveva ricevuto una chiamata
da tale Michelle Conceicao. Io non ricordo di aver mai parlato con questa
Conceicao.
Ricordo
invece la telefonata della Signora Miriam Loddo che mi comunicava che Ruby, le
aveva telefonato in lacrime per dirle che si trovava alla Questura di Milano
dove era stata accompagnata e trattenuta perché accusata di un furto e trovata
sprovvista di documenti.
A
questo punto è opportuno specificare la ragione per la quale quando l’on. Valentini,
avendo ascoltato la telefonata con la Loddo mi chiese se volevo che contattasse
la Questura di Milano. Risposi affermativamente poiché ritenevo, oltre alla mia
propensione ad aiutare una persona in difficoltà, che da quella circostanza
sarebbero potute derivare delle implicazioni diplomatiche negative.
Ma
la vicenda va contestualizzata nel periodo in cui effettivamente accadde.
Come
immagino ricorderete nella prima parte del 2010 era accaduto un grave incidente
internazionale fra la Confederazione Elvetica e la Libia, incidente che aveva
attirato l’attenzione di tutta la stampa occidentale.
Uno
dei figli di Gheddafi, Hannibal, a seguito di una denuncia per violenze, era
stato arrestato in Svizzera.
Il
leader libico, per ritorsione, aveva congelato tutte le attività svizzere in
Libia, aveva ritirato il visto a tutti i cittadini svizzeri e aveva trattenuto
per ritorsione sul proprio territorio dei cittadini elvetici cui venne impedito
di ripartire.
Ebbene
il giorno 27 marzo 2010 si tenne a Sirte il vertice della Lega Araba a cui fui
invitato come ospite d’onore.
In
quella circostanza, dopo una lunga trattativa con Gheddafi, conseguii un
rilevante successo ottenendo la revoca dei provvedimenti contro i cittadini
svizzeri in tema di visti.
Non
ero riuscito invece a risolvere il divieto di rientro in patria di due uomini
di affari svizzeri.
Mi
occupavo di queste situazioni perché la Confederazione Svizzera, al corrente
dei miei rapporti con la Libia, mi aveva chiesto se potevo intervenire sul
Colonnello Gheddafi al fine di ottenere la loro liberazione. Lo feci con
diversi interventi nei mesi successivi e, finalmente il 13 giugno del 2010,
sedici giorni dopo il 27 Maggio, riuscii
a risolvere il problema di cui mi ero interessato quasi quotidianamente.
Il
13 giugno 2010 infatti, si svolse a Tripoli un summit dell’Unione Africana a
cui parteciparono i vertici dell’Unione Europea e i leaders di alcuni Stati
europei.
Gheddafi
volle pranzare da solo con me in una sala riservata e durante il pranzo,
nonostante le mie insistenze, mi confermò che l’ultimo uomo d’affari svizzero
trattenuto in Libia Max Goldi sarebbe stato trattenuto ancora in Libia in
seguito alla sua condanna a quattro mesi di carcere.
Alla
fine del pranzo chiesi a Gheddafi quale sarebbe stato il menù per la cena. Mi
guardò stupito e io gli comunicai che sarei rimasto in Libia suo ospite fino a
quando non avesse rilasciato anche l’ultimo cittadino svizzero. Rise di questa
mia insistenza, sembrò non prendere sul serio la mia minaccia e mi ricordò ancora
che questo signore doveva attendere il risultato del ricorso presso l’Alta
Corte di appello. Io non mi detti per vinto e continuai a confermargli che
comunque sarei rimasto come suo ospite. Se ne andò scuotendo la testa ma
ridendo.
Qualche
ora più tardi mi fece comunicare dal suo segretario particolare che Max Goldi
era stato messo su un aereo per la Svizzera perché, testuale, “la Libia non
poteva permettersi il lusso di mantenere, oltre a lui, anche il Presidente
italiano”.
Per inciso, quella stessa sera,
portai a termine anche un'altra mediazione con Gheddafi, e ottenni il rilascio
di tre pescherecci di Mazara del Vallo sequestrati qualche giorno prima dalle
Autorità libiche nelle loro acque territoriali.
L’incidente
internazionale originato dall’arresto del figlio di Gheddafi mi aveva quindi
occupato a lungo e quando mi fu comunicato
che Ruby, per quanto a mia conoscenza, egiziana e parente di Moubarak si
trovava trattenuta in questura, mi venne spontaneo paragonare questa
circostanza proprio alla vicenda del figlio di Gheddafi e immaginai subito che tale situazione avrebbe
potuto creare un incidente diplomatico con
Moubarak essendo appunto io convinto che Ruby facesse parte della sua famiglia.
Infatti
nel corso del vertice Italo-Egiziano che si era tenuto otto giorni prima del 27
maggio cioè il 19 maggio 2010, a Villa Madama, durante il pranzo, terminata la
parte ufficiale dei negoziati avevo chiesto notizie di questa Ruby allo stesso
Presidente Moubarak raccontandogli di
come l’avevo conosciuta e della sua storia, convinto com’ero che fosse una sua
parente.
Alla
mia domanda se conoscesse la madre di Ruby la risposta fu affermativa e mi
disse che si trattava di una famosa cantante che effettivamente faceva parte
della sua cerchia famigliare ma che non era a conoscenza del fatto che avesse
una figlia messa fuori casa per problemi di religione.
L’argomento
“Ruby” occupò la conversazione, di fronte ai molti commensali, per diverso
tempo. Moubarak mi assicurò alla fine che si sarebbe informato e che mi avrebbe
fatto sapere. Rimasi quindi nel convincimento che Ruby potesse avere davvero un legame parentale con il Presidente
egiziano.
Per
questo, quando l’on. Valentini la sera di
otto giorno dopo a Parigi, mi chiese
se fosse il caso di assumere informazioni presso la Questura, gli risposi
affermativamente.
Come
ho già ricordato, mi venne spontaneo paragonare la circostanza del fatto che
Ruby fosse trattenuta in Questura proprio con la vicenda di cui mi stavo
occupando, del figlio di Gheddafi trattenendo in Questura daghi svizzeri. Immaginai subito che tale situazione avrebbe
potuto creare un incidente diplomatico con Moubarak che avrebbe potuto
dirmi: “Ma come, tu, Presidente del
Consiglio italiano, mi hai parlato di questa ragazza come di una mia parente e
permetti che questa mia parente sia oltraggiata in casa tua, nel tuo Paese?!”
Moubarak
non era certo Gheddafi ma era pur sempre un autocrate cui sarebbe stato
difficile comprendere che un Premier, che gli aveva egli stesso parlato di questa
persona descrivendola come sua parente, avesse potuto permettere uno sgarbo,
un’offesa così grande ad un caro amico e collega.
Tornando
alla notte del 27 maggio parlai con Nicole Minetti che già aveva saputo da
un’amica di quanto stava accadendo a Ruby e che quindi confermò quanto dettomi
poco prima dalla Loddo.
Poiché
mi era stato riferito che si trattava anche di un problema di identificazione,
essendo la ragazza sprovvista di documenti, ritenni utile chiedere alla Minetti
che aveva conosciuto bene Ruby da me, di recarsi in Questura per agevolare tale
identificazione.
La
decisione quindi di contattare la questura, come ho già ricordato, fu suggerita
dall’on. Valentini prima e poi dal capo scorta Ettore Estorelli, il quale ci disse che avrebbe potuto assumere
informazioni tramite un funzionario con cui si rapportava per i nostri
spostamenti.
Io
non sapevo neppure chi fosse questo funzionario né che ruolo ricoprisse nella Questura di Milano, ma ero
interessato a sapere se
effettivamente vi fosse un problema per l’identificazione della ragazza.
Il
mio capo scorta chiamò questo funzionario, il dottor Ostuni, mi passò il
telefono e la mia conversazione con lui fu estremamente breve.
Mi
limitai a chiedergli se poteva confermare
o meno che vi fossero problemi per l’identificazione di una giovane di nome
Ruby di cittadinanza egiziana, e gli
dissi che mi risultava che questa giovane potesse
avere rapporti di parentela con il presidente Moubarak.
Gli
riferii che per agevolare le operazioni di identificazione avevo chiesto al
consigliere regionale Nicole Minetti che, ripeto, aveva personalmente
conosciuto presso la mia residenza la stessa Ruby, di recarsi presso la
Questura.
Mi
sembrò una scelta logica, opportuna e doverosa
proprio per evitare, ripeto, un potenziale
incidente diplomatico.
Non
dissi altro e non chiesi in alcun
modo al dr. Ostuni di intervenire sulle procedure, né avrei potuto farlo perché non ero a conoscenza di cosa realmente
stesse accadendo in Questura
Dopo
queste telefonate decollammo da Parigi e quando atterrammo a Roma, senza che vi
fossero stati altri ulteriori contatti telefonici, Estorelli chiamò Ostuni che
gli disse che era in corso l’identificazione della ragazza ma che la situazione
era in via di risoluzione. A questo punto io non feci null’altro. Qualche tempo
dopo Nicole Minetti, mi chiamò per mettermi al corrente della situazione in
Questura. Mi raccontò che Ruby era stata
identificata e che era risultata non essere egiziana bensì di nazionalità
marocchina e per di più minorenne. La notizia mi lasciò di stucco e mi resi
finalmente conto che Ruby aveva mentito e si era costruita una seconda diversa
identità in sostituzione della sua condizione reale.
Di
conseguenza ritenni di non dovermi più interessare di lei, ma quanto al
possibile incidente diplomatico, tirai un bel sospiro di sollievo.
Per
concludere l’episodio: la mia telefonata in Questura fu solo di natura
conoscitiva tesa unicamente a dare e ad ottenere una informazione e la prova ne è che non ritenni di dover
chiamare i responsabili istituzionali e cioè né il Questore né il Prefetto,
come sarebbe stato evidentemente agevole e naturale per il Presidente del
Consiglio.
Così
come non avevo ritenuto di chiamare il nostro Ministro degli Esteri o
l’Ambasciatore Egiziano prima di aver accertato quale fosse la situazione. E’
ovvio che allertare i canali diplomatici senza una previa verifica avrebbe
potuto creare di per sé un inutile incidente.
Debbo
altresì ricordare che io non avevo affatto chiesto che la ragazza venisse
affidata alla Minetti, essendomi limitato a chiedere alla stessa Minetti di
recarsi in Questura unicamente per
agevolare l’identificazione della ragazza.
Il
suo affido ad una comunità-famiglia mi era del tutto indifferente e, quando una
settimana dopo Ruby fu fermata nuovamente dalla polizia e affidata ad una
comunità-famiglia di Genova, non ritenni in alcun modo di intervenire al
riguardo.
Successivamente
a tali fatti io non mi sono più occupato delle vicende della ragazza. Ho saputo
però che il mio amministratore rag. Spinelli le consegnò successivamente, a
seguito di continue e reiterate insistenze, una somma di qualche migliaio di
euro.
Voglio
infine ribadire che i miei rapporti con le ospiti alle mie cene erano basati
sulla simpatia, sul cameratismo, sull’amicizia e sul rispetto e che non c’è mai stata alcuna
dazione di denaro per ottenere rapporti intimi. Devo anche affermare con forza
che nessuna delle mie ospiti poteva essere classificata, per quanto a mia
conoscenza, come “escort” come invece poi è accaduto sui media nazionali ed internazionali.
Questo
procedimento penale ha causato davvero dei danni assoluti all’immagine e alla
vita di queste ragazze che oggi hanno difficoltà a trovarsi un fidanzato, un
lavoro, una casa in affitto.
E
questa è la parte più dolorosa di questo processo che si è trasformato in una
mostruosa operazione di diffamazione internazionale per me e per le mie ospiti.
In
realtà sempre (e fortunatamente) la mia capacità economica mi ha consentito di
aiutare che si trova in difficoltà. Da quando è iniziata questa operazione
diffamatoria ho ritenuto di dover aiutare anche molte di queste ragazze, poiché
, lo ripeto, hanno avuto la vita e la carriera lavorativa rovinata dall’impatto
mediatico di questa indagine.
Per
concludere: avrei qui preferito rendere interrogatorio anziché dichiarazioni
spontanee.
Ma
la storia di questi vent’anni di accuse che la Procura di Milano ha di continuo
portato avanti nei miei confronti non mi consente di seguire questa via.
Sono
infatti disponibile a farmi interrogare da chi ponga domande essendo davvero e
senza pregiudizi personali o politici interessato alle mie risposte.
Si
legge perfino su alcuni giornali avversi alla mia parte politica che questo
Tribunale avrebbe già deciso per la mia condanna e questo renderebbe ovviamente
inutile qualsiasi mia dichiarazione.
Io
non voglio credere che sia così e spero che queste illazioni siano smentite dai
fatti.
Se
in un paese non ci fosse più la certezza dell’imparzialità dei giudici, questo
Paese sarebbe un Paese incivile, barbaro, invivibile e non sarebbe nemmeno più
una vera democrazia.
Io
credo invece che in Italia, il mio paese, il paese che amo, il paese che tutti
noi amiamo, debba esserci ancora e sempre la certezza sulla imparzialità dei
giudici. Ed è per questo che contro il parere di molti ho deciso di rilasciare
queste “dichiarazioni spontanee” illustrando i fatti nella loro concreta
realtà.
Vi
ringrazio.
mercoledì 10 luglio 2013
giovedì 4 luglio 2013
Campagna tedesca. Davide Giacalone
C’è un problema tedesco. Ignorarlo è pericoloso. Non esiste Unione europea senza la Francia, senza l’Italia o senza la Germania. Ma neanche esiste se uno di questi paesi pensa di dominarla. Il che, oggi, è possibile solo per la Germania. Chi si vuol dare arie di conoscitore delle vicende continentali ripete che il vento potrà cambiare solo dopo le elezioni tedesche, dando per assodato che in quelle non si entra, essendo faccenda interna, e che saranno decise mentendo ai tedeschi, circa il futuro d’Europa. E’ convinzione diffusa, ma errata. Si deve parlarne prima, anche intervenendo nel loro dibattito politico. I progetti espansionistici che la signora Merkel ha in mente, anche mediante l’uso della KfW, non sono tema germano-tedesco, ma europeo.
Per capire non ci sono ostacoli tecnici: la KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau) è una banca pubblica, nata per amministrare i fondi del piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale (quindi anche per “combattere” la guerra fredda) ed era una via di mezzo fra la nostra Cassa depositi e prestiti e il nostro Iri (Istituto ricostruzione industriale, come quello era credito per la ricostruzione). Oggi ha aggiunto Bankengruppe, a indicare la sua non contingente vocazione. Una banca interamente pubblica (80% Stato federale e 20% Länder, gli stati regionali), che, però, non rientra nel perimetro del bilancio pubblico. E questo è un artificio contabile, che dovrebbe valere per tutti o per nessuno. Dice la signora Merkel: visto che ci sono paesi in difficoltà, come Spagna, Portogallo e Grecia, stiamo lavorando per intervenire con la KfW. Sembra bontà, in realtà è imperialismo continentale.
Succede, infatti, che restando fuori dal bilancio pubblico la KfW nasconde le proprie perdite e mimetizza gli aiuti di Stato alle imprese tedesche (si veda, ad esempio, il settore dell’ambiente). Cooperando con le Landesbank, possedute da quei Länder che controllano il 20% di KfW, organizzano finanziamenti fuori mercato, destinati a consentire ai soggetti economici tedeschi di battere la concorrenza altrui (come è avvenuto anche ai danni del tessile italiano). La forza di queste istituzioni bancarie consisteva nell’avere alle spalle lo Stato, oggi consiste anche nel procurarsi denaro, sui mercati internazionali, a tasso negativo. Gratis. Il loro progetto è prendere quel denaro e investirlo acquistando ricchezza esistente o prodotta da altri paesi europei, i quali sono costretti a vendere o accettare aiuti, proprio perché il mercato della liquidità pratica loro tassi troppo alti. Ma quei tassi sono alti a causa del modo in cui funziona l’euro. Detto in parole povere: i tedeschi indeboliscono gli altri europei tenendo ferma la politica monetaria e poi li aiutano entrando nella loro economia, quindi spostando ricchezza verso il loro sistema. Messa così non salta solo l’euro, salta tutta l’Unione.
E’ necessario ripeterlo ancora, perché in materia gli equivoci si sprecano: i tedeschi hanno il merito di avere fatto riforme strutturali, anche nel mercato del lavoro, che gli altri non hanno fatto. Ma ora usano la loro forza per creare un impero della slealtà. E visto che ieri discutevano di disoccupazione è bene ricordare quanto annunciato dalla Merkel: faremo politiche per attirare manodopera specializzata in Germania, naturalmente privilegiando i nostri cittadini. Sembra l’ovvio delle leggi di mercato, e degli interessi nazionali, ma è la via che porta ad un’Europa germanocentrica. Con il centro che si arricchisce ai danni della periferia. Il tutto mentre si contesta l’operato della Banca centrale europea, non escludendo che giudici tedeschi la condannino a recedere. Tradotto: meno Europa per più Germania.
Non solo: Enrico Letta esulta perché la Commissione europea consentirà maggiori margini alla spesa di chi ha praticato la lesina. Ma (posto che i particolari sono decisivi e sono rinviati) se lo sfondo non cambia questo porta a squilibri di bilancio che a loro volta costeranno in termini di remunerazione del debito, vale a dire che la posizione della Germania si rafforza sempre di più. Posto che noi siamo dei pazzi a non abbattere il debito con dismissioni e a non tagliare e riqualificare la spesa pubblica, è da doppiamente matti non accorgersi di dove portano quelle premesse. Qui esultano tutti. Il Pdl canta vittoria. Il Pd socialità. Il trionfo della superficialità.
Il guaio, serio, è che la signora Merkel è una statista con in mente il sogno della grande Germania, mentre gli altri sono governanti con in mente la voglia di sopravvivere alle loro idee morte e alla loro incapacità riformatrice. Avessero spina dorsale interverrebbero nella campagna elettorale, per avvertire i fratelli tedeschi di cosa sta preparando il loro governo.
Pubblicato da Libero
Per capire non ci sono ostacoli tecnici: la KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau) è una banca pubblica, nata per amministrare i fondi del piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale (quindi anche per “combattere” la guerra fredda) ed era una via di mezzo fra la nostra Cassa depositi e prestiti e il nostro Iri (Istituto ricostruzione industriale, come quello era credito per la ricostruzione). Oggi ha aggiunto Bankengruppe, a indicare la sua non contingente vocazione. Una banca interamente pubblica (80% Stato federale e 20% Länder, gli stati regionali), che, però, non rientra nel perimetro del bilancio pubblico. E questo è un artificio contabile, che dovrebbe valere per tutti o per nessuno. Dice la signora Merkel: visto che ci sono paesi in difficoltà, come Spagna, Portogallo e Grecia, stiamo lavorando per intervenire con la KfW. Sembra bontà, in realtà è imperialismo continentale.
Succede, infatti, che restando fuori dal bilancio pubblico la KfW nasconde le proprie perdite e mimetizza gli aiuti di Stato alle imprese tedesche (si veda, ad esempio, il settore dell’ambiente). Cooperando con le Landesbank, possedute da quei Länder che controllano il 20% di KfW, organizzano finanziamenti fuori mercato, destinati a consentire ai soggetti economici tedeschi di battere la concorrenza altrui (come è avvenuto anche ai danni del tessile italiano). La forza di queste istituzioni bancarie consisteva nell’avere alle spalle lo Stato, oggi consiste anche nel procurarsi denaro, sui mercati internazionali, a tasso negativo. Gratis. Il loro progetto è prendere quel denaro e investirlo acquistando ricchezza esistente o prodotta da altri paesi europei, i quali sono costretti a vendere o accettare aiuti, proprio perché il mercato della liquidità pratica loro tassi troppo alti. Ma quei tassi sono alti a causa del modo in cui funziona l’euro. Detto in parole povere: i tedeschi indeboliscono gli altri europei tenendo ferma la politica monetaria e poi li aiutano entrando nella loro economia, quindi spostando ricchezza verso il loro sistema. Messa così non salta solo l’euro, salta tutta l’Unione.
E’ necessario ripeterlo ancora, perché in materia gli equivoci si sprecano: i tedeschi hanno il merito di avere fatto riforme strutturali, anche nel mercato del lavoro, che gli altri non hanno fatto. Ma ora usano la loro forza per creare un impero della slealtà. E visto che ieri discutevano di disoccupazione è bene ricordare quanto annunciato dalla Merkel: faremo politiche per attirare manodopera specializzata in Germania, naturalmente privilegiando i nostri cittadini. Sembra l’ovvio delle leggi di mercato, e degli interessi nazionali, ma è la via che porta ad un’Europa germanocentrica. Con il centro che si arricchisce ai danni della periferia. Il tutto mentre si contesta l’operato della Banca centrale europea, non escludendo che giudici tedeschi la condannino a recedere. Tradotto: meno Europa per più Germania.
Non solo: Enrico Letta esulta perché la Commissione europea consentirà maggiori margini alla spesa di chi ha praticato la lesina. Ma (posto che i particolari sono decisivi e sono rinviati) se lo sfondo non cambia questo porta a squilibri di bilancio che a loro volta costeranno in termini di remunerazione del debito, vale a dire che la posizione della Germania si rafforza sempre di più. Posto che noi siamo dei pazzi a non abbattere il debito con dismissioni e a non tagliare e riqualificare la spesa pubblica, è da doppiamente matti non accorgersi di dove portano quelle premesse. Qui esultano tutti. Il Pdl canta vittoria. Il Pd socialità. Il trionfo della superficialità.
Il guaio, serio, è che la signora Merkel è una statista con in mente il sogno della grande Germania, mentre gli altri sono governanti con in mente la voglia di sopravvivere alle loro idee morte e alla loro incapacità riformatrice. Avessero spina dorsale interverrebbero nella campagna elettorale, per avvertire i fratelli tedeschi di cosa sta preparando il loro governo.
Pubblicato da Libero
martedì 2 luglio 2013
E ci tocca pure difendere la Santanchè. Dino Cofrancesco
Se avessi avuto una qualche voce in capitolo come dirigente, iscritto, elettore ‘di riguardo’ del PDL, non avrei mai votato per la candidatura di Daniela Santanché alla vicepresidenza della Camera. Non ho nulla contro la ‘pitonessa’ (oltretutto, ancora una gran bella donna) ma non mi piace il suo stile aggressivo, la sua spregiudicata franchezza fatta volteggiare come una scimitarra, le sue posizioni da ‘falco’ in un contesto politico-parlamentare che richiede molta prudenza e nervi saldi.
E tuttavia le riserve avanzate nei confronti della sua elezione rappresentano, a mio avviso, il nadir toccato in Italia dall’assoluta assenza di senso dello Stato e dalla persistente, inquietante, mancanza di rispetto delle istituzioni. Un’autentica vergogna, se si pensa che, grazie alle strategie di Pierluigi Bersani (che passerà alla storia come l’Attila del postcomunismo italico – con la differenza, però, che Attila conquistò un impero mentre lui ridusse in pezzi quel che ne restava –, i parlamentari hanno portato alla Presidenza della Camera un’esponente di SEL, come Laura Boldrini (altra gran bella donna) la cui ‘mente’ non si differenzia molto da quella del ‘compianto’ Carlo Giuliani, il giovane antagonista che, nel G8 di Genova, ci rimise le penne mentre dava l’assalto, con un estintore, a una camionetta di agenti dell’ordine; e alla Presidenza del Senato, uno come Pietro Grasso che delle qualità attribuite dal Segretario fiorentino al grande politico, «la golpe e il lione», sembra possedere solo la prima. Inoltre i parlamentari del PD, ai quali ripugna la Santanché, hanno eletto come capogruppo al Senato Luigi Zanda, forse uno degli uomini più faziosi (irritanti e ideologicamente ottusi) in circolazione nel nostro paese.
Quel che è peggio, tuttavia, a parte gli eletti e gli aspiranti, è la cecità mostrata dalla (attuale) sinistra e dai suoi giornali per quel che riguarda le ‘esternazioni’ di cariche istituzionali che pur avendo, per legge, solo il compito di regolare il ‘traffico’ delle due Camere, non rinunciano a dire la loro sui massimi problemi di politica interna e internazionale. In nessuna democrazia del mondo occidentale si sono visti gli speaker della Camera (di cui forse, nella maggior parte dei paesi, si ignora persino il nome) così presenti sui teleschermi e così pronti a pronunciarsi sull’economia di mercato, sulla politica dell’immigrazione, sulle riforme istituzionali, sulle coppie di fatto etc. E’ come se i vigili urbani si trasformassero improvvisamente in opinion maker con diritto a intervenire e di dare consigli non solo sulle zone pedonali e sui semafori ma altresì sull’urbanistica, sulla politica dei trasporti, sulle fonti energetiche, sui ‘modelli di sviluppo’. Si tratta di un’anomalia, per la verità, che trovò in Gianfranco Fini la sua espressione più sconcertante e che, trattandosi di un ‘rinnegato’ dal Cavaliere, incontrò il plauso di tutta l’opposizione di centro-sinistra – un episodio che fa pensare ai preti progressisti, alla don Andrea Gallo, che possono contare sugli applausi a scena aperta delle platee progressiste ma che non riescono a portare a Dio neppure una sola di quelle ‘anime belle’ (che poi sarebbe la loro missione o no?) da cui vengono tanto osannati.
Non potendo disporre dei soldi e delle televisioni di Berlusconi, Fini pensò bene di utilizzare la sua carica istituzionale di Presidente della Camera facendo di Montecitorio il contraltare del vicino Palazzo Chigi (v. il saggio di Paolo Armaroli, Gianfranco Fini e il suo doppio, Ed. Pagliai 2013). Fu lo zenit di quell’uso privatistico delle istituzioni da sempre presente nel dna di destra e sinistra e che ancora oggi porta molti intellettuali militanti a giustificare la colonizzazione politica della RAI con l’argomento no comment: se un partito e uno schieramento politico e culturale non hanno le ingenti risorse massmediatiche di Mediaset, è giusto che compensino la loro inferiorità piazzando i loro uomini negli studi e nei palinsesti del servizio pubblico. Già, del ‘servizio pubblico’, che non importa se diventa poi ‘servizio privato’ di un settore parlamentare (obbligando quindi il contribuente a sostenerne le perdite, pur se appartenente a una diversa area elettorale), dal momento che si tratta di compensare le ingiuste ripartizioni dei beni di questo mondo operate dalla dea Fortuna (che, come si sa, per definizione, è ‘cieca’). In base a questa forma mentis, se papà non mi lascia uno yacht, una volta divenuto assessore, me lo procuro mettendolo sul bilancio della Regione – stava per accadere anche questo in una zona ‘virtuosa’ dello stivale.
(Poiché la madre dei cretini è sempre gravida, non vorrei essere equivocato: non sto sostenendo che il controllo privato di tre canali televisivi non ponga il loro proprietario in una posizione privilegiata; sostengo, invece, che non si rimedia a tale ennesima anomalia italiana, dando in consegna istituzioni che sono di tutti a una sola parte ma favorendo il pluralismo dell’informazione nei modi consentiti da una autentica economia di mercato e dalla rete dei diritti che tutelano le iniziative e le libertà dei cittadini).
Alla luce di queste considerazioni, si capisce bene l’ostilità per la Santanché. E se, divenuta vicepresidente della Camera, si mettesse anche lei a ‘esternare’, a ‘dire la sua’ sul programma di governo di Letta, sulle sentenze del Tribunale di Milano (Tempio dell’Imparzialità e dell’Esemplare Amministrazione della Giustizia), sul Monte dei Paschi di Siena? Siamo alle solite, nel nostro paese, non sono le ‘forme’ oggetto di venerazione e tabernacolo dei ‘valori comuni’, bensì i ‘contenuti’. Una scrittrice d’avanguardia poteva definire, anni fa, Condoleezza Rice «una scimmietta nera ammaestrata» senza far vergognare nessun ‘compagno’ giacché, al di là del linguaggio politicamente scorretto, il segretario di Stato di Georg H. W. Bush era ‘oggettivamente’ al servizio del capitalismo imperialista statunitense. Stiamo a sottilizzare sulle forme (linguistiche) quando ci troviamo dinanzi a ‘contenuti’ (etici, politici, sociali) massicci come l’Everest?
Un conto è quello che dice la Boldrini nelle tantissime cerimonie pubbliche nelle quali è chiamata a far da madrina, un conto ben diverso è quello che potrebbe dire la Santanché: l’esternazione, come la libertà di parola, è sacra solo se se ne fa buon uso. Intelligenti pauca, sia detto a quei quattro gatti liberali che si ostinano a pensare che l’ombra dei principi possa mettere tutti (amici e nemici) al riparo dalle calure soffocanti nei conflitti politici che continuano a lacerare la nostra povera Italia alla deriva.
(LSBlog)
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