Il partito democratico non può spendere i prossimi quattro anni congratulandosi per lo scampato pericolo dell’autodissoluzione. I sondaggi più funesti pronosticavano un crollo rovinoso, ma con il 26,1 la sconfitta ha assunto dimensioni sopportabili. Non si è materializzato l’incubo della marcia trionfale di Berlusconi. La sinistra nel suo complesso, malgrado la massiccia dispersione di voti, ha conservato un cospicuo patrimonio elettorale. Ma le note confortanti per Franceschini e il gruppo dirigente democratico finiscono drammaticamente qui: per il Pd è scaduto il tempo dei rinvii.
La distanza con il suo avversario è di 9 punti percentuali: un’enormità, visto che il Pdl non è nemmeno nella sua forma più smagliante. L’ondata leghista ha invaso il cuore delle regioni rosse. Il partito di Berlusconi gode di un primato nella totalità delle circoscrizioni. Nel Mezzogiorno il Pd rischia la sparizione. Lo scomodo Di Pietro non solo conquista voti, ma appare la personificazione di un messaggio forte, capace di attirare un’opinione pubblica di sinistra sconcertata dall’immagine sbiadita dei Democratici. L’elettorato è disorientato e scoraggiato, e stenta a capire dove il Pd voglia andare, con chi, in quali forme, con quale leader.
A febbraio, con le traumatiche dimissioni di Veltroni, il Pd affidò a Franceschini il compito di traghettare un partito stordito da una dolorosa sequenza di sconfitte. E se il nuovo (provvisorio?) segretario non ha nulla da rimproverarsi avendo recitato il suo ruolo con coraggio e dignità, le oligarchie del partito danno l’impressione di aver sotterrato l’ascia di guerra solo momentaneamente. Il plebiscito che ha incoronato la giovane Debora Serracchiani denuncia l’attesa inappagata di un segnale di una svolta, se non di un nuovo inizio. Ma non viene indicata la data di un congresso. Le diverse linee politiche (che ci sono, ma mimetizzate in una sfibrante guerra tra correnti) non vengono allo scoperto. I maggiorenti del partito, imprigionati nel loro ruolo di eterni padri nobili, si consumano nel tatticismo e nel gioco incrociato delle candidature. Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella lacerante incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppure restare immobili. Ora, ufficialmente, si attende il giorno dei ballottaggi per riprendere il discorso interrotto con le dimissioni di Veltroni. Ma comincia a circolare autorevolmente la voce che la resa dei conti possa aspettare le elezioni regionali del 2010: sarebbe la scelta peggiore.
Perché forse l’elettorato democratico non aspetta un’avvelenata resa dei conti, ma una competizione aperta, democratica e leale tra i diversi filoni che compongono, non «amalgamati », il Pd. Una lotta politica chiara da cui possa scaturire una leadership destinata a segnare il percorso democratico e a costruire un’alternativa credibile all’attuale maggioranza. Dovrebbe essere questa, se non si è capito male, l’ispirazione fondante di un partito a «vocazione maggioritaria». La cui missione non può essere solo l’eroica resistenza per continuare a sopravvivere. (Corriere della Sera)
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