Venti anni dopo l’inquinamento della memoria regna sovrano. Si parla d’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino, si dice che il movente sarebbe nella volontà di rimuovere l’ostacolo alla trattativa fra Stato e mafia, si evoca la “strategia delle tensione”, la voglia di “evitare mutamenti politici non graditi” (due frasi di Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, che sembrano concepite apposta per confondere le idee). E noi qui, ancora una volta costretti alla fatica e al dolore della memoria, non disposti a farci portare via dal fiume dei depistaggi, fermi nel non cedere per stanchezza, ma stanchi di richiamare l’attenzione su cose ovvie. Perché questo è quel che succede: le ricostruzioni più fantasiose e contorte vengono vendute come disegni affascinanti, apparentemente complicate ma in realtà banali, mentre i dati di fatto, le date, le cose certe vengono accantonate come cose astruse, invece granitiche nella loro evidenza. E mentre ne scrivo ho addosso la sensazione che la gran parte dei lettori non ne possano più, non ci capiscano nulla, sono presi fra la noia e il disgusto, pronti a bere qualsiasi cosa, purché sia l’ultima.
Invece no. Si deve cominciare da capo. Dunque: il giudice dell’indagine preliminare di Caltanissetta ha disposto arresti cautelari (cautelari? venti anni dopo?) per quattro persone, accusate di avere ordinato ed eseguito la strage di via D’Amelio. Il disegno è quello già mille volte propagandato, e mai dimostrato: Borsellino muore perché si oppone alla trattativa fra Stato e mafia. Per quella strage esistono già delle sentenze in giudicato, che definitivamente stabilirono il falso. Siccome noi lo scrivevamo quando gli attuali strilloni della nuova tesi c’intimavano di rispettare le sentenze, continuando a scrivere la storia con quelle, anziché usando la testa, mi permetto di girare la faccenda e cominciare dalla fine, anche per rispetto del lettore frastornato: io non faccio indagini e non istruisco processi, ma resto convinto che Borsellino muore, dopo che era stato ammazzato Falcone, perché era un ostacolo all’insabbiamento e archiviazione dell’inchiesta mafia appalti, immediatamente distrutta dopo la sua morte, a cura della procura della Repubblica di Palermo. Quello è il movente, quello l’anello d’unione fra i disonorati della mafia e i traditori dello Stato. Quanti lavorarono a quell’inchiesta hanno tutti passato dei guai. L’uomo più vicino a Borsellino è stato processato per mafia. Quelli che insabbiarono hanno fatto carriera. Il resto sono minchionerie, come vado a ridocumentare.
Anche i sassi sanno (credono di sapere) che la presunta trattativa sarebbe stata incentrata sul “papello” di Riina e sulla richiesta di ammorbidimento del carcere duro, disposto ex articolo 41 bis. La tesi è stata avvalorata dal più grande depistatore comparso sulla scena, pubblicamente sbugiardato, ma da taluni altamente valutato: Massimo Ciancimino. Tutti ripetono che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano amici e colleghi e che la morte del secondo è legata alla morte del primo. Cosa li univa, la difesa del 41 bis? Ma per la miseria, quella norma venne introdotta dopo la morte di Falcone. Ripetiamo: Falcone muore il 23 maggio 1992; Borsellino il 19 luglio; nel mezzo, l’8 giugno, viene emendato e allargato il 41 bis. Volete mettervi nella testa che il legame fra le due stragi è la negazione del teorema? Semmai li univa il lavoro contro la mafia e li univa l’inchiesta sugli appalti, condotta secondo i dettami della scuola falconiana. Quei due credevano in quel che è stato archiviato.
Ma mettiamo che io sia totalmente in errore, che il vero oggetto fosse il 41 bis: Falcone muore per vendetta e gli altri per cancellare il carcere duro. E va bene: chi decise di non applicarlo per evitare che continuassero le stragi? Lo teorizzò Alberto Capriotti, voluto da Oscar Luigi Scalfaro, su indicazione del Vaticano, a capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), quel Capriotti che fu nominato dal governo Ciampi e che vide avallare le sue tesi da Giovanni Conso, allora ministro della giustizia, nel novembre del 1993 (le bombe di mafia, alcune contro siti ecclesiastici, vanno da maggio a luglio 1993, con una non esplosa a ottobre). Cosa se ne deve dedurre, che Borsellino fu ammazzato per rimuovere l’ostacolo che impediva alla mafia di mettersi d’accordo con Scalfaro-Ciampi-Conso? La svolta politica che la mafia non gradiva, gentile procuratore Grasso, sarebbe la caduta di quel governo? Io non lo credo, mi pare una boiata, ma neanche si può bere la fesseria che le bombe venivano messe per propiziare l’arrivo di chi ripristinò il 41 bis. E che diamine.
Venti anni dopo i professionisti dell’antimafia fanno fiorire le inchieste, si buttano sulle frasi fatte, elaborano architetture improbabili, il tutto per nascondere quel che le date raccontano in modo inequivocabile: quella spiegazione è una cretinata, mentre si continua a nascondere l’archiviazione dell’inchiesta mafia appalti.
Amici lettori, non ne posso più neanche io. Ma non ci sarà mai verso di allinearci a quella lettura mendace della nostra storia, non piegheremo la memoria al falso, non subiremo la violenza di spiegazioni che non spiegano un accidente. Non ho nessuna verità da vendere, ma neanche sono disposto ad accettare che si continui a vendere il falso. Dentro e fuori le aule di giustizia.
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