lunedì 22 settembre 2008

Fini assomiglia a De Gaulle, parola di neoconservatore. Giorgio Stracquadanio

«Fini non è assolutamente un fascista, né un neofascista. È un gaullista». A dirlo, qualche anno fa, è stato Michael Arthur Ledeen, uno degli animatori dell’American Enterprise Institute, il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani e, soprattutto, autore, nel 1975, quando aveva trentacinque anni ed era professore di Storia, di quella Intervista sul fascismo a Renzo De Felice che aprì la prima vera riflessione profonda e non ideologica sul ventennio mussoliniano.
Non so se quel giudizio lusinghiero su Gianfranco Fini possa essere ripetuto oggi. Sicuramente non si può estendere a quanti si sono esibiti nelle polemiche sul fascismo, continuando a baloccarsi con il “grado di assolutezza del male” o con l’onore da rendere ai militari della divisione Nembo della Repubblica Sociale Italiana.
A più di trent’anni dallo splendido libro di Ledeen pubblicato da Laterza, le polemiche su fascismo e antifascismo tra destra e sinistra e nella stessa destra politica italiana dimostrano che, purtroppo, la lezione di De Felice non è penetrata nelle coscienze dei protagonisti della politica.

Tre acquisizioni

Qual è la sostanza del giudizio storico che diede Renzo De Felice del fascismo. Secondo Leeden sono tre le acquisizioni fondamentali del grande storico:
la prima è la distinzione tra Fascismo regime e Fascismo movimento: il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione;
la seconda è la condivisione della radice ideologica tra fascismo e comunismo, l’esser entrambi figli di ideologie nemiche della libertà e del liberalismo. «Renzo – spiegò Leeden in un’intervista succesiva – ebbe il coraggio di dire, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetico: erano figli della rivoluzione francese. E questa, che oggi tutti riconoscono una banale verità, era un’affermazione tremenda per la sinistra».

Un’affermazione che oggi diventa tremenda per una parte della destra che, evidentemente, fatica ad approdare alla cultura del liberalismo e al ripudio della sua matrice giacobina;
la terza acquisizione della lezione di De Felice è infine il consenso che il fascismo ebbe nel ventennio: «vorrei non fosse vero – è sempre Leeden a parlare – ma è la cosa più terribile del fascismo: è stato molto popolare». Un fatto che l’Italia intera dovrebbe riconoscere, comprendendo come la democrazia e la libertà non sono beni acquisiti per sempre. E che talvolta, per essere riconquistati, richiedono l’uso della forza, la guerra. Come quella degli anglo-americani a cui dobbiamo la nostra libertà. Senza di loro gli antifascisti non sarebbero andati da nessuna parte.
Purtroppo nulla di tutto questo si è sentito in questi giorni. Sicuramente non da Alemanno né da La Russa. Ma nemmeno da Fini. Tutti sembrano essersi formati alla storiografia retorica dell’antifascismo dell’Anpi. Sembra paradossale, ma è la destra italiana ad aver sepolto lo storico che ha posto le basi culturali per la sua legittimazione democratica. (il Domenicale)

1 commento:

Anonimo ha detto...

imparato molto