L’istituto delle dimissioni, si sa, non ha mai trovato grande applicazione nel nostro paese. Rinunciare ad una poltrona, ad uno stipendio, ad uno status è doloroso. Ed in Italia da sempre di dolori si parla con grande intensità ma dai dolori si sfugge anche con particolare velocità. Chi si dimette, dunque, rappresenta una eccezione. Che però non costituisce una rarità assoluta. Nelle aziende capita abbastanza spesso. Ed anche nel settore della politica, dove si scontra chi le vuole obbligatorie per gli inquisiti e chi le considera una offesa alla presunzione d’innocenza prevista dalla Costituzione, il fenomeno non è affatto infrequente. Insomma, anche se è diventato un luogo comune protestare contro chi non ha il coraggio morale e civile di togliersi di mezzo quando le circostanze lo richiedono, il metodo delle dimissioni esiste e viene applicato abbastanza spesso in tutti i settori della vita pubblica e privata del paese. Proprio in tutti? Per la verità una eccezione c’è. E merita di essere sottolineata. Perchè particolarmente significativa e carica di conseguenze decisamente negative. Esiste un solo caso negli ultimi decenni di dimissioni di un magistrato dal proprio incarico? C’è mai stato un giudice o un Pubblico Ministero che abbia deciso di rinunciare alla toga? Gli unici casi sono quelli dei magistrati che hanno abbandonato le aule dei tribunali per entrare in quelle del Parlamento nazionale o del Parlamento europeo. Per la carriera politica, in sostanza all’interno della magistratura le dimissioni si danno. Per altre ragioni non se ne parla nemmeno. Neppure se queste ragioni sono di natura etica e morale. Per non parlare di quelle legate alla semplice e più consueta opportunità. Quella che dovrebbe scattare, ad esempio, nel caso il magistrato dovesse compiere un errore marchiano o, peggio, ispirare la propria azione giudiziaria non al banale rispetto della legge ma alla difesa ed alla promozione delle proprie convinzioni ideologiche e politiche.
I magistrati del caso Tortora, ad esempio, sono rimasti tranquillamente al loro posto ed hanno fatto regolare carriera senza manifestare alcun tipo di imbarazzo morale per la cantonata presa ai danni di un innocente. E, sulla scia di questo esempio, se ne potrebbero citare una infinità. A conferma del fatto che nessun magistrato si è mai dimesso per compiere una sorta di atto risarcitorio nei confronti di quel popolo in nome del quale amministra la giustizia. Ed a riprova della circostanza che nel nostro paese esiste una sola categoria priva di qualsiasi tipo di responsabilità. Una volta era il princeps ad essere legibus solutus. Ora è chi indossa la toga a poter contare su una sorta di licenza senza limiti e senza conseguenze personali che ha finito con il trasformare una categoria prima in una corporazione chiusa e poi in una casta di bramini intoccabili ed irresponsabili. Si dirà che il giudizio è troppo aspro. E l’osservazione è sicuramente giusta se si tiene conto che l’irresponsabilità viene sfruttata da una parte minoritaria dei magistrati. Ma riconoscere che tantissimi magistrati sono responsabili non elimina il problema gigantesco posto dall’assenza di una norma in grado di non lasciare alla buona volontà personale ma a regole definite il rispetto del principio di responsabilità. Il caso Bertolaso è l’ultima conferma della serie che se si vuole assicurare ai cittadini una giustizia autenticamente giusta bisogna porre al centro di una grande e complessiva riforma della giustizia una norma sulla responsabilità dei magistrati. Chi lo è è già non ha nulla da temere. Chi non lo è si dovrà abitarsi ad esserlo. In nome della Costituzione che vuole tutti i cittadini (tutti senza eccezioni di sorta) uguali di fronte alla legge! (l'Opinione)
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