Siamo sicuri che la scuola superiore s’appresti alla rivoluzione dei corsi? Il nostro sistema dell’istruzione è talmente mal messo, i suoi risultati sono così miseri, che qualsiasi novità è venduta e scambiata come palingenesi, il che serve solo ad alimentare la successiva delusione. Inoltre, come se non bastasse, ha preso piede anche l’ideologia dell’antideologia, per cui, dopo i cascami incolti dell’egualitarismo sessantottino, va di moda la meritocrazia a chiacchiere. Credo, invece, che senza estirpare un paio di malepiante, non si vada da nessuna parte.
In questi giorni si è fatto un gran parlare della “riforma Gelmini”. Si tratta, in realtà, di regolamenti approvati dal Consiglio dei ministri, in attuazione di leggi esistenti. Importanti, certo, ma non epocali. Si mette ordine nella ripartizione delle materie, nella definizione e specificità degli istituti tecnici e professionali, nell’orario scolastico. Cose buone e giuste, ma non esattamente la nascita di un nuovo sistema. Per il resto, invece, le cose restano come stanno, a cominciare dalla dequalificazione degli studi.
Ci siamo arrivati, a questo punto, partendo dall’idea che la scuola sarebbe stata più bella e democratica se avesse dato a tutti la stessa cosa, salvo accorgersi che il punto di caduta era l’ignoranza equidistribuita. Si sono demoliti gli istituti professionali, in omaggio alla cultura da aprirsi a tutti, riuscendo così a privare molti della sapienza del fare (e, oltre tutto, non sta scritto da nessuna parte che sia inconciliabile con la cultura letteraria, artistica o musicale). Abbiamo tolto ai professori il loro ruolo sociale, costringendoli ad amministrare un gregge da portare compatto al compimento degli studi, non più coincidente con l’acquisizione di conoscenze, abbiamo, così, creato un ambiente adatto per quanti salgono in cattedra per prendere uno stipendio, in attesa di percepire la pensione, e inadatto a chi abbia passione e vocazione per l’insegnamento. La società tutta s’è prestata a questa degradazione, facendosi rappresentare da genitori che un tempo erano il potenziamento della severità dei docenti, mentre ora sono, per la gran parte, i sindacalisti dei propri figli, sempre più viziati e familisticamente protetti. Contro tutto questo dovrebbero ribellarsi i giovani, la cui testa sarà il trofeo polveroso di tanta dissipazione culturale ed economica, mentre, invece, le pantere e le onde si levano solo allorquando taluno pretende mettere mano alla realtà per cambiarla. Sono colpevoli, questi ragazzi, perché complici dei loro peggiori professori.
Ho letto le reazioni ai nuovi regolamenti, sempre le solite: sono solo tagli, diminuiscono le ore d’insegnamento, è un attacco all’istruzione pubblica. Magari, ci fosse bisogno d’attaccarla! La realtà è fotografata in pochi numeri, aprite gli occhi: nella scuola primaria le ore annue d’insegnamento, in Italia, sono 990, la media Ocse è 796; nella secondaria inferiore i due numeri sono 1.089 e 933; in quella superiore 1.089 e 971. Veniamo al numero di docenti ogni 100 studenti: nella primaria italiana sono 9,4, la media Ocse è 6,2; nella secondaria inferiore 9,7 e 7,5; in quella superiore 9,1 e 8. Quindi, abbiamo più ore d’insegnamento e più docenti della media Ocse, ma risultati largamente inferiori, accertati dai test Pisa, che ogni anno ci umiliano. Secondo voi, come si fa ad ottenere un risultato simile se non mettendo nel conto ore inutili e docenti incapaci? Ecco, le proteste, invece, sono tutte indirizzate a conservarci entrambe, quali beni preziosi.
E’ vero, invece, che per l’istruzione spendiamo meno della media Ocse: il 3,3% del prodotto interno lordo, contro il 3,8. Spendiamo meno, ma abbiamo più personale che lavora, e ciò significa che usiamo i soldi quasi esclusivamente per la spesa corrente, con tanti saluti all’innovazione e alla ricerca. Ma basta toccare questa situazione che subito salta il sindacato, e appresso a quello si muovono i cortei degli studenti, che manifestano contro se stessi. E siccome non lo capiscono, ciò non depone a favore della loro lucidità.
I conti relativi all’università li faremo un’altra volta, per adesso bastino due numeri, a illustrare il fallimento del mito egualitario: nel 2003 si iscriveva all’università il 56,5% dei diciannovenni e il 74,4 dei diplomati; nel 2009 i primi affluiscono per il 47,4 e i secondi per il 59,1. Il titolo di questo film dovrebbe essere: 2010, fuga dall’università. Ma non perché difficile e selettiva, bensì perché inutile. Non si torna all’università classista, si galleggia in quella declassata.
Dubito che i regolamenti possano porre argine a questo straripare di fallimenti. Il salto di qualità lo si farà imboccando tre strade: a. l’abolizione del valore legale del titolo di studio; b. la trasparenza statistica sui risultati formativi, seguendo gli studenti nella loro vita lavorativa e professionale; c. fine del finanziamento uguale per tutti. Ciascuno di noi può studiare, per tutta la vita, al fine di coltivare l’animo. Ma gli studi istituzionalmente organizzati devono servire a conquistare una vita migliore e un livello di reddito superiore, devono essere meritocratici e selettivi, a cominciare dalle persone che stanno in cattedra. Questa sì, che è una rivoluzione. Che non vedo, però, all’orizzonte.
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