Qualsiasi conciliazione fra palestinesi e israeliani è impossibile per esplicito disegno dei primi. Che nutrono un odio assoluto per i secondi. Ed è tutta questione di religione, non di terre irredente. Lo dice Benny Morris
Chi si ricorda più di Yasser Arafat? Il “padre del popolo palestinese” è caduto completamente nell’oblio. Negli uffici dell’ANP o di Hamas c’è la foto sui muri, ma è difficile credere che quell’immagine rappresenti oggi per i palestinesi, popolo e dirigenti, una fonte d’ispirazione reale. D’altro canto, i sostenitori occidentali del raìs sembrano voler cancellare dai propri proclami qualsiasi riferimento a lui: un’eredità pesante, un simbolo di sconfitta, ma soprattutto un emblema di autosconfitta.Si tratta di un caso veramente unico nella storia dei movimenti di liberazione nazionale. Il leader, infatti, è sempre il leader, nella vittoria e nella sconfitta, il suo esempio è comunque sempre un riferimento inestinguibile, un incitamento alla lotta, la speranza vera. Ma Arafat ha fatto eccezione. Già nella corposa biografia dedicatagli da Barry Rubin e da Judith Colp Rubin, Arafat. L’uomo che non volle la pace (trad. it., Mondadori, Milano 2005), apparivano tutti gli elementi di un declino autodistruttivo, i caratteri di una doppiezza foriera di esiti negativi, una sorta di cupio dissolvi paradossale per il capo di un movimento teso a un obiettivo storico quale quello di dar vita a una patria palestinese. È quindi importante, oggi, alla luce della storia e degli esiti attuali di quella vicenda, ripercorrere la storia di Arafat e del suo rifiuto.
Antisemitismo come piovesse
Perché questo è il punto cruciale: il rifiuto. Il concetto apparve per la prima volta all’inizio degli anni Sessanta, quando il marxista Maxime Rodinson pubblicò in Francia un libro che in Italia arrivò, solo nel 1969, con il titolo Israele e il rifiuto arabo. La tesi di Rodinson era che il rifiuto arabo era ben giustificato dalla prepotenza perpetrata dai sionisti sulla comunità palestinese, una prepotenza alimentata dall’imperialismo statunitense e, nel complesso, dall’indulgenza internazionale verso l’impresa ebraica. La questione religiosa – che sarebbe diventata cruciale nei decenni successivi – era allora quasi del tutto assente dal testo di Rodinson.E invece il trascorrere dei decenni e il fallimento degl’innumerevoli tentativi di giungere a una pace definitiva hanno dimostrato che lo scontro tra il mondo arabo e quello ebraico aveva radici essenzialmente religiose, nel rifiuto da parte islamica di accettare la presenza dell’elemento giudaico all’interno del proprio mondo. Così, l’esodo dei palestinesi, dopo la guerra del 1948-49, dai territori assegnati dalle Nazioni Unite al futuro Stato ebraico non fece che acuire sino alla spasimo l’umiliazione araba per una perdita considerata inaccettabile dal punto di vista della coerenza della tradizione religiosa nel contesto mediorientale. Né il rimpallo delle responsabilità di questo esodo poteva cancellare la questione di fondo: il rifiuto era di carattere religioso, e l’antisemitismo islamico si alimentava del disprezzo e dell’odio verso i giudei.
Lo shock di Camp David
Perciò, l’ammissione dello stesso Abu Mazen, braccio destro di Arafat, fatta nel 1975 sull’organo ufficiale dell’OLP Falastin al-Thawra, non poteva avere alcun significato pratico: «Gli eserciti arabi entrarono in Palestina per proteggere i palestinesi dalla tirannia sionista, ma al contrario li abbandonarono, li costrinsero a emigrare e a lasciare la propria terra, imposero loro un blocco politico e ideologico e li gettarono in prigioni simili ai ghetti in cui gli ebrei usavano vivere nell’Europa Orientale». Il problema della terra, dunque, era soltanto un mascheramento della vera questione di fondo: il rifiuto arabo di accettare in terra islamica i giudei, “figli di porci e scimmie”, sottouomini. Ed è per questo stesso motivo che la proposta israeliana, dopo la guerra dei Sei Giorni, di “pace in cambio dei territori” rimase per gli arabi lettera morta.Benny Morris, nel suo ultimo libro, Due popoli, una terra (tard. it. Rizzoli, Milano 2008, pp.230, E 12,00), riesamina il problema da questo punto di vista. Interessante è peraltro la parabola dello storico israeliano. Morris è stato il capofila dei “nuovi” storici israeliani, avviando una revisione profonda della storia dello Stato ebraico, a partire dal “peccato originale” del movimento sionista, quello di avere cioè creato uno Stato ai danni del popolo palestinese, per poi proseguire con una sistematica demolizione della tradizionale narrazione della storia di Israele, giudicata falsa e deformante.
Ma il fallimento di Camp David del 2000 è stato per Morris uno shock che gli ha aperto gli occhi e fatto comprendere che il rifiuto irragionevole di Arafat di dare vita a uno Stato palestinese non riguardava un chilometro quadrato di terra in più o in meno, ma l’accettazione stessa di vivere accanto agli ebrei. Arafat voleva una sola cosa: creare uno Stato palestinese al posto di Israele, non accanto a Israele. Non questione di terra, ma di fedi. Il climax del libro di Morris è questo.
Lo storico israeliano ripercorre così tutte le soluzioni che dalla fine dell’Ottocento a oggi sono state elaborate per giungere alla coesistenza tra i due popoli, concludendo che il fallimento fu ed è dovuto non alla questione territoriale , ma alla xenofobia di matrice religiosa. Per questo motivo, lo strumento che gli arabi adottano per risolvere il contenzioso è sempre stato il jihad, benché spesso mascherato per ragioni di mero opportunismo.
Slogan e ideologia
Prima ancora della Seconda guerra mondiale, nel 1936-37, la Commissione Peel, voluta da Londra come potenza mandataria sulla Palestina, propose la prima soluzione spartitoria che assegnava ai sionisti una piccola enclave di 6mila km2 completamente circondata da un più ampio Stato arabo e quindi facilmente eliminabile. Ebbene, i sionisti accettarono, per quanto consapevoli dei rischi mortali cui andavano incontro, e gli arabi rifiutarono. Questa è insomma la cifra costante della risposta araba, basata sull’assunto che gli ebrei siano estranei alla Palestina: «Questo annullamento della “ebraicità” della Palestina ha sempre caratterizzato il movimento nazionalista arabo-palestinese», scrive Morris, riferendosi chiaramente alle ragioni religiose.
Di conseguenza, sia la soluzione monostatuale sia quella bistatuale rappresentarono, nel corso della lunga crisi, soltanto proposte che hanno impegnato le due parti in infinite quanto inutili discussioni, poiché il pregiudizio religioso arabo nei confronti degli ebrei è stato insormontabile, anche se sottaciuto.
Morris analizza dettagliatamente il lungo, defatigante iter di queste due soluzioni, compreso lo slogan, che eccitava gli occidentali, di una Palestina come “Stato laico e democratico” accanto a Israele, slogan che Morris tratta giustamente alla stregua di una barzelletta.
Quanto poi alla soluzione monostatuale con la compresenza di due popoli con eguali diritti, lo storico israeliano è chiarissimo: «[...] L’idea della duplice nazionalità non aveva mai avuto la minima presa in alcun settore della società arabo-palestinese». In definitiva, gli arabi hanno sempre rifiutato sia la soluzione bistatuale sia, «per principio», quella monostatuale. Ma, alla luce della ricostruzione di Morris e degli eventi degli ultimi anni, il rifiuto arabo ha riguardato la presenza degli ebrei in Palestina in qualsiasi modo fosse proposta. In sostanza, così sintetizza la questione lo storico israeliano: «Il costante rifiuto, da parte della leadership dell’OLP, di accettare l’ebraicità di Israele è indice di un rifiuto di base dell’approccio bistatuale». La strada era aperta per i terroristi islamici di Hamas e delle altre formazioni radicali.
Il libro di Morris squarcia insomma il velo della falsità e delle deformazioni che hanno caratterizzato l’interpretazione del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina, un’interpretazione che ha tenuto banco in Occidente per lunghi decenni, nonostante i fatti parlassero chiaro. Ma è difficile pensare che il pregiudizio ideologico nei confronti di Israele possa venire meno solo per opera di un libro. (il Domenicale)
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1 commento:
Condivido l'idea di Benny morris sulle causedel conflitto, ma non l'idea di uno stato binazionale. Perchè gli ebrei non devono mantenere uno stato proprio indipendente? Proprio perchè, come Morris afferma, i palestinesi hanno un odio e un rifiuto totale verso gli ebrei al punto da ritenerli "figli di scimmie e maiali" ecco che sarebbe pericoloso creare uno stato del genere perchè ne approfitterebbero per controllarlo e per imporre le loro leggi! Potrebbe scaturirne una tragedia, una guerra civile fratricida e non mi sembra prprio il caso di auspicare una cosa del genere.
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