Immaginatevi di creare dal nulla in cinque anni una città di circa duecentocinquantamila abitanti, estesa su quindici chilometri quadrati. Come Mestre, o Messina, o Prato.
E di realizzare questa città grazie a una importante quota di finanziamenti statali (200 milioni di euro di partenza) e al supporto di fondi privati; cioè di costruttori, proprietari, banche interessate a investire per realizzare dell’edilizia residenziale destinata ai ceti meno abbienti.
Ecco visualizzato in un’immagine il Piano Casa varato ieri dal Governo. È tanto? È poco? È sufficiente a rispondere al disagio abitativo di migliaia di cittadini italiani (famiglie a basso reddito, studenti fuori-sede, giovani coppie, sfrattati, immigrati)? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare tre considerazioni.
La prima è che si tratta di un atto politico opportuno e utile, che riprende una promessa di stanziamento del governo Prodi e ne attua una prima cospicua parte. Ma resta un atto parziale e limitato, se pensiamo che una sola Regione italiana, la Campania, avrebbe, da sola, bisogno di tutte le 100.000 nuove abitazioni previste nel prossimo quinquennio dal Piano Casa per dare risposta alla drammatica domanda di case a prezzi contenuti che proviene dai suoi abitanti. In altre parole, è come se una nuova Mestre o una nuova Messina servissero per ospitare i cittadini bisognosi di una sola, seppur grande, regione italiana. Lasciando insoddisfatto per i prossimi cinque anni il resto del Paese.
La seconda considerazione è che questo Piano Casa è un intervento salutare e però anche monco. Gli manca quel pezzo importantissimo, anzi fondamentale, che riguarda tutti gli interventi di recupero, ristrutturazione e ampliamento che - grazie a facilitazioni e incentivi legati alla possibilità di rottamare edifici fatiscenti e di sostituirli con architetture sostenibili dal punto di vista energetico - il governo prevede di concordare con le Regioni italiane.
È come se dopo aver discusso per mesi del Piano Casa vero, che potrà sul serio cambiare - nel bene e nel male - la situazione dell’edilizia residenziale dei territori del nostro Paese, ieri se ne fosse rubato il nome per metterlo sul cappello di un progetto molto più limitato, anche se importante. Se è dunque un bene che si sia partiti con l’intenzione di rispondere alle situazioni più drammatiche, va anche detto che proprio perché il disagio abitativo è oggi un fenomeno trasversale, che riguarda fasce diverse della popolazione urbana, è necessario che al più presto i due strumenti legislativi vengano riaccorpati e portati a coerenza.
La terza considerazione, la più importante, è piuttosto un appello. Siamo ancora in tempo - anche per le ragioni appena esposte - a convincere il governo a varare un Piano integrato di politiche sulla casa che non eviti di affrontare il primo grande paradosso delle città italiane: sono città che continuano a crescere, a divorare annualmente in misura maggiore di ogni altro Paese europeo terreni verdi e campi agricoli, nonostante siano per gran parte degli immensi gusci vuoti, dei deserti di cemento.
Siamo ancora in tempo a capire che senza una politica che si occupi con forza e ostinazione di recuperare alla vita quotidiana le migliaia e migliaia di vani oggi disabitati, ogni previsione di nuova edilizia residenziale assume dei toni caricaturali e addirittura minacciosi.
Come abbiamo già scritto su queste pagine, per rendersi conto di questo paradosso basterebbe guardarsi attorno; memorizzare le offerte di affitto e vendita sui portoni delle case e soprattutto quelle infinite persiane chiuse delle abitazioni e quei serramenti senza vita degli uffici che - come le palpebre di occhi che non vedono più - ci guardano con una sospetta fissità nei nostri percorsi quotidiani in centro, in periferia, nella città diffusa. A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245.000 - una su sette - sono oggi vuote. A Milano su 1.640.000 appartamenti, più di 80.000 non sono abitati, e quasi 900.000 metri cubi di uffici sono deserti (l’equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti). Muri, pavimenti, soffitti, arredi che aspettano da anni che qualcuno entri, li abiti, vi riporti le pulsazioni della vita quotidiana.
Una seria politica di rivitalizzazione di questo immenso patrimonio sfitto o abbandonato muoverebbe le energie molecolari di migliaia di piccole imprese edili, l’intelligenza delle innumerevoli associazioni che si occupano di instaurare (ecco la vera sussidiarietà) uno scambio fiduciario tra proprietari e inquilini, aumenterebbe il reddito di migliaia di famiglie impaurite da un sistema dell’affitto sregolato e darebbe casa a prezzi calmierati a altrettante migliaia di cittadini bisognosi ma esclusi dai requisiti a volte rigidi delle politiche centralizzate. Qualcosa che sta accadendo, per fare un esempio vicino, in Spagna, a Barcellona, dove un’Agenzia di immobiliare sociale in pochi anni ha reimmesso sul mercato più di 20.000 abitazioni ad affitti calmierati.
Altro che una nuova Mestre o una nuova Messina... Le case di cui abbiamo bisogno stanno già, costruite e vuote, dentro le città del nostro Paese. Recuperarle, ridar loro una linfa vitale è il primo modo di rispondere al fabbisogno abitativo; ed è il miglior modo per difendere da un’inutile - ripeto inutile - cementificazione le campagne che, ancora per poco, circondano le nostre bulimiche città.
*Architetto, docente di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Dirige la rivista Abitare
(la Stampa)
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