Anche se può apparire strano, Berlusconi dovrebbe essere, anche, il leader del Partito democratico. Se le parole conservano il loro significato letterale, Berlusconi è il leader italiano che è stato democraticamente eletto più volte: nel 1994, nel 2001 e nel 2008. Ma si è presentato ad ogni elezione politica negli ultimi quindici anni. Sono gli elettori ad aver scelto Berlusconi come premier. Invece nessun leader dell'attuale Partito democratico è mai stato democraticamente eletto. Paradossale il caso di D'Alema: è stato l'unico della post-sinistra a diventare premier, ma senza passare per la verifica elettorale. Infatti rimase a Palazzo Chigi solo un anno. Anche Prodi non scherza: vinse nel 1996 e nel 2006, per un pugno di voti, ma senza avere un suo partito. Era come votare per un partito che a sua volta eleggeva un leader che però non era il suo.
La cultura politica italiana, per tradizione storica e per deformazione ideologica, svaluta le elezioni. E' logico: per mezzo secolo il voto popolare ha contato meno del potere delle oligarchie di partito. E' una macchia che scurisce la trasparenza della nostra democrazia. Infatti ancora oggi, nella foga della guerra mediatica, si spulcia in qualunque risvolto della vita del premier ma si ignora quel voto popolare che nel 2008 ha scelto Berlusconi e non Veltroni. Svalutare le elezioni significa anche svalutare la fiducia degli elettori per Berlusconi e la fiducia negli elettori stessi. E' ancora peggio: l'attacco all'avversario politico deborda nello svilimento dei suoi elettori. Si può colpire, anche malignamente, un nemico politico. Ma è molto più complicato provare a far cambiare idea a milioni di elettori. Ecco perché si demonizza il loro leader. Se Berlusconi viene messo in cattiva luce, allora i suoi nemici giurati sperano che gli elettori cambino idea.
Ma qui il ragionamento cambia. La democrazia non è una questione di apparenza e il voto non si concede tanto facilmente e solo in base a criteri esteriori o momentanei. Ma questa sfiducia nell'elettore che vota Berlusconi è anche il segno della sinistra orfana delle sue ideologie, con cui mobilitava e irreggimentava le menti di intere generazioni. Niente ideologie, niente voto ideologico, cioè il voto assicurato semplicemente esibendo un simbolo e pronunciando qualche parola chiave. Adesso i voti bisogna prenderseli uno ad uno. Per farlo bisogna comunicare, anzitutto se stessi, vedi Berlusconi. Allora ecco un altro motivo per cui combattere il premier con tanta acrimonia: la comunicazione è il successo di un leader, oppure è la sua sconfitta. E' sempre stato così - nelle democrazie. La fiducia del voto si conquista con il discorso. Ma ogni argomentazione richiede il rispetto reciproco. Torniamo al punto di partenza.
Purtroppo è invalsa la mentalità della sinistra di accaparrarsi la democrazia come fosse una sua pertinenza esclusiva. Il significato delle elezioni primarie del Pd è proprio questo: noi siamo quelli democratici. Tuttavia la sinistra ha vinto solo quando gli elettori votano una coalizione con un premier senza partito, Prodi - oppure hanno votato alle primarie un leader che poi gli italiani non hanno votato come premier. I conti non tornano. La democrazia di partito non è la democrazia. E' un'organizzazione del consenso interno. Ma ci sono altre forme, specialmente quando il consenso interno del Pd rimane bloccato perché la sua classe dirigente segue politiche a prescindere dal mandato elettorale degli iscritti. Si può attaccare chiunque, in tanti modi. Colpire Berlusconi sulla sua «democraticità», nel senso più originario, è un pretesto per delegittimare i suoi elettori. Ma qui siamo, anzi sono, già fuori dal perimetro della democrazia. (Ragionpolitica)
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4 commenti:
Le oligarchie che hanno potere ma non consenso
È vero, la lotta politica in Italia non è tra governo e opposizione, o addirittura tra destra e sinistra: ma è tra oligarchie e consenso popolare. Non chiamatele élite, per favore, e nemmeno poteri forti. I poteri impotenti, i poteri deboli non sono poteri, e le élite sono il fior fiore di un Paese, sono la classe dirigente, non la classe dominante. Perché quando parlate del ceto politico usate l’espressione negativa di Casta, non senza ragione, per alludere ai suoi privilegi e ai suoi favori, e quando parlate di un’altra oligarchia, quella degli affari più contorno di stampa e propaganda, la definite addirittura aristocrazia? È un’altra casta, con i suoi privilegi, i suoi interessi che divergono da quelli del Paese, i suoi valori che sono dissonanti dal sentire comune, le sue pretese di egemonia che non passano dal vaglio del popolo sovrano. Capisco l’irritazione dei grandi giornali, altoparlanti della casta suddetta, per le parole dure di Brunetta. Capisco pure l’accusa di demagogia e di populismo. Non sbagliano del tutto, mi rendo conto. Ma ci sono due tipi di populismi: uno vuole fuoruscire dalla democrazia, dal voto e dalla libertà, sognando scorciatoie autoritarie e un altro, al contrario, si attacca al voto popolare, alla democrazia e alla libertà per reagire al potere delle oligarchie. In Italia il populismo è nato in reazione all’alleanza tra le caste: quella derivata dal comunismo e dalla sinistra radical, quella imperante nel potere editoriale, culturale e multimediale, e quella di un capitalismo assistito e furbo che da sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, evade e taglieggia lo Stato, rileva, magari a prezzi stracciati, imprese e gruppi editoriali, e disegna l’Italia a immagine e somiglianza dei propri interessi. Per dirla col linguaggio del secolo scorso, l’oligarchia che oggi attacca il governo Berlusconi nasce dall’intreccio tra destra economica e sinistra ideologica, di cui molti grandi giornali sono garanti e punti di incontro: perché in quei giornali, ad una proprietà che risponde a quegli assetti di potere corrisponde la guida del giornale nelle mani di un ceto professionale venuto in gran parte da sinistra, dal Sessantotto e dal radicalismo. Quella triplice alleanza, oligarchie economico-finanziarie, intellettuali-mediatiche, politico-manovali, più appendici sindacali e avanguardie giudiziarie, fu a un passo dal conquistare il potere con il crollo di Craxi, della Dc e della Prima Repubblica: poi arrivò un certo Berlusconi e il ’94 sfumò la presa del potere politico ma rimase quella del potere diffuso. Al punto che Berlusconi andò al governo, mandato dal popolo, ma non andò al potere. Che pochi mesi dopo, grazie anche ad alcuni errori del centrodestra, lo sfrattò da Palazzo Chigi con tanto di avviso giudiziario. Quella guerra è proseguita sottotraccia lungo tutto questo tempo, con periodiche emersioni allo scoperto di questa ostilità. Che in tempi di bonaccia sono a livello culturale o civile, e non mancano ambasciatori di frontiera che tentano di stabilire concordati; in tempi di bufera si palesano a livello politico e persino elettorale, con plateali pronunciamenti, come quello celebre di Mieli sul Corriere della sera. A volte trovano autorevoli complicità nei vertici della Confindustria, della Banca d’Italia e di molte banche ora irritate dalle posizioni di Tremonti dalla parte degli italiani contro le speculazioni dei medesimi istituti. Certo, non è una storia solo italiana se già un sociologo americano venuto da sinistra e poi approdato a posizioni populiste, Cristopher Lasch, scrisse nei primi anni Novanta La ribellione delle élite.
Ma da noi la guerra c’è, si combatte ogni giorno, il terreno più vistoso è la stampa e, in generale, la cultura del Paese. Si è acutizzata quest’estate, e non a caso parlammo proprio sul Giornale della caduta degli dei, riferendoci alle suddette oligarchie. A voler individuare il blocco sociale di riferimento delle oligarchie dovremmo dire che non sono più i mitici proletari e gli operai, ma, per esempio, gli insegnanti, più sparsi borghesi, residui sindacali e superstiti dinosauri militanti. Unico intoppo, quella che Flaiano chiamava la trascurabile maggioranza degli italiani, il consenso popolare a questo governo.
Il fine è trasparente: modificare, correggere, fino a sovvertire, l’esito di libere elezioni e del consenso popolare. Si lanciano campagne mediatiche con studiata puntualità e, nei momenti di vuoto, si recitano dei mantra: l’ultimo è Il Declino, un rosario che oligarchie, politici di sinistra e stampa recitano ogni giorno fino a farlo diventare luogo comune, convinzione diffusa. È cominciato il declino di Berlusconi e della sua band, ripetono tutti con tono oracolare. Ci sono segni elettorali, popolari, parlamentari, governativi di questo declino? No, vaghi segni climatici, presagi e maledizioni, passaparola e riti parapsicologici, un po’ come facevano gli aruspici nell’antica Roma e gli jettatori nella vecchia Napoli.
Al governo in carica, tuttavia, non tocca solo denunciare la manovra e non è il caso di abbassare il tono della denuncia in modo greve. Bisogna porsi il problema in chiave politica e culturale. Traduco: bisogna rendere trasparente il conflitto, visibile a occhio nudo e circoscritto ad una sfera politica; non escludendo, laddove è possibile, raggiungere tregue e punti di intesa nell’interesse reciproco e generale. Il problema culturale è invece: si può governare un Paese contro le oligarchie dominanti, o piuttosto non è necessario tentare una strategia di conquista civile e culturale delle posizioni chiave, o quantomeno una presenza bilanciata, che apra alle plurali culture del Paese? Un leader e un popolo non bastano, ci vuole anche una classe dirigente adeguata, ci vogliono élite. Cosa distingue un’élite da un’oligarchia, ovvero una classe dirigente da una classe dominante, come diceva Gramsci? Le classi dirigenti e le élite sono il potere di pochi nell’interesse di molti, le classi dominanti e le oligarchie sono il potere di pochi nell’interesse di pochi. In termini culturali si tratta di compiere il salto di qualità dal populismo al comunitarismo, ovvero da una politica istintiva ed emozionale ad una sensibilità consapevole e una cultura del legame sociale e popolare. Ma torniamo alla realtà fresca di giornata: nel presente si tratta di scegliere tra un leader arcitaliano nei vizi e nelle virtù, che rappresenta il popolo, e le oligarchie, che rappresentano se stesse. Liberamente e criticamente preferiamo la prima soluzione.
di Marcello Veneziani
Propongo anche alcune delle gustose battute di Brunetta.
“[Esiste in Italia una parte] minoritaria, legata alla cattiva rendita finanziaria, bancaria e burocratica.
È espressione dei poteri forti, quelli delle cattive speculazioni. È l’Italia caudataria, al servizio e dipendente dal potere che negli anni della Democrazia cristiana aveva i suoi giornali e una
rappresentazione culturale…”
“Dopo il golpe dell’inizio anni Novanta e dopo l’avvento di
Berlusconi e del berlusconismo al potere è andata di fatto la prima Italia, cioè una classe dirigente in nessun modo legata ai salotti buoni o cattivi. Va al potere per la prima volta senza inutili mediazioni e lo fa con programma molto chiaro: distruggere la seconda Italia, quella dei parassiti”
“[Questa] seconda Italia, che non aveva mai voluto entrare in conflitto con il potere in quanto
parassitaria, per la prima volta si è sentita veramente in pericolo e ha cercato una sponda. L’ha
trovata a sinistra. Nei partiti sconfitti dalla storia dopo il crollo del muro di Berlino”.
“[Tali poteri forti]…sono soi-disent élite. E poi usano la sinistra come un tassì. Certo, è un taxi scalcagnato, ma le élites della rendita avevano bisogno di un luogo politico, visto che non hanno funzionato i vari club che hanno costituito.
E questo luogo non poteva che essere il Pci-Pds-Ds-Pd.
Un bell’abbraccio mortale che sta portando a fondo entrambi”.
“…è un paradosso mondiale che la sinistra si allei con la rendita parassitaria, ma poi questa è una
miscela insopportabile e impossibile per tutti. Ma come si fa politica con partiti sfasciati e
l’opposizione in mano ai giornali?”
“Io voglio fare un appello alla buona sinistra: liberati dall’abbraccio mortale delle lobby della rendita e della cattiva finanza, non è quello il tuo mondo.
Stai dalla parte del popolo. Attacca il governo… proponi politiche alternative, ma lascia stare i colpi di Stato. Lo stesso berlusconismo, il gruppo dirigente maggioritario, ha bisogno di un’opposizione politica vera. A sinistra c’è tanta gente per bene che non può sentirsi rappresentata dai padroni del cattivo vapore. Dai soliti noti come i passeggeri del Britannia”.
“La campagna antigovernativa non viene dalla sinistra. Sono le finte élites che vogliono tentare il colpaccio”
“Non basta imbarcarsi nel Britannia per sentirsi élite…”
“[I golpisti puntano] …a fare un governo. Lo stanno già progettando, quest’estate ci sono stati incontri e hanno pure stilato le liste dei ministri, il programma di governo”.
“[Le élite parassitarie vorrebbero fare] Il classico governo tecnico dei sedicenti migliori. Commis,
apparati e sepolcri imbiancati. Un governo con un unico programma: la protezione della rendita”.
Perche non:)
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