Che cosa hanno in comune Di Pietro e i Boy scout, la Mezzaluna Palestinese e la Lega Antivivisezione, i giovani avvocati e i precari della scuola, Pax Christi e la Cgil, le Acli e i Comunisti Sinistra Popolare, Mani Tese e “Il Bolscevico”, Michele Santoro e l’Ufficio Stampa dell’Inps, la redazione di Cucina & Vini e il direttore di Guerra & Pace, i comunisti italiani e l’associazione mazziniana…?
Poco o niente, ma saranno tutti (e moltissimi altri) a Roma il prossimo 3 ottobre per manifestare contro Silvio Berlusconi. Perché di questo si tratta anche se l’appuntamento, convocato dal sindacato dei Giornalisti e super-sponsorizzato dal gruppo Espresso-La Repubblica si richiama alla libertà di stampa, alla fine a smuovere le truppe da ogni parte d’Italia verso la capitale, a risvegliare il popolo dei pulmann, è sempre lo stesso motore: l’odio antiberlusconiano.
Non c’è altra spiegazione che questa, visto che sarebbe altrimenti impossibile credere alla fola dell’informazione al guinzaglio (come recita lo slogan della manifestazione), alla censura di regime o alla democrazia a rischio. La verità è che in tutto il mondo l’informazione ha mille guinzagli: ogni giornalista, direttore, editore ha il suo. Mai come oggi, quando il business delle news è in crisi ovunque, la libera stampa è libera solo di nome. Piuttosto è sovvenzionata, finanziata, piegata a giochi di potere, incastrata in un risiko finanziario senza confini. L’unico modo per salvarsene è la limpida lettura degli interessi che la sostengono. Invece in Italia la messa in scena è quella che vedremo il 3 ottobre: tutti liberi e indipendenti contro l’unico Squalo.
Eppure basta gettare uno sguardo anche disattento oltre confine per rendersi conto delle tante poste in gioco. Guardate in Spagna quale titanica lotta di potere è in corso tra Zapatero e il gruppo Prisa, quello che edita El Paìs . Guardate negli Usa, dove Barack Obama (dopo aver dato sostanzialmente dei "farabutti" ai bloggers) è sul punto di infrangere un tabù secolare, approvando un bailout per la stampa, cioè il salvataggio dei grandi giornali con soldi pubblici. Così il guinzaglio lo terrà ben stretto l’amministrazione in carica.
Poi tornate in Italia e guardate a quel brulicare di astio, di risentimento e di miopia che anima la protesta nostrana secondo cui fatto fuori Berlusconi avremmo il migliore dei mondi (e dell’informazione) possibili. Senza neppure lo sforzo di chiedersi come mai non si sbloccano le nomine di Rai3 e Tg3 e perché, come d’incanto, esse arriveranno una volta sciolto il nodo della segreteria del Pd.
L’odio contro Berlusconi si dà appuntamento a Roma e si sublima attorno al tema dell’informazione perché non ha altro sottomano, nel momento in cui – non i sondaggi sul premier - ma l’indice sulla fiducia dei consumatori italiani calcolato dall’Isae ha raggiunto il suo massimo dal dicembre 2006. Per questo aderiscono anche Di Pietro e Franceschini in cerca di linfa per l’opposizione.
La stampa non c’entra. E come potrebbe? Come si può gridare alla libertà di stampa a rischio in un paese in cui un grande quotidiano ha potuto in modo del tutto indisturbato e anzi applaudito in Italia e all’estero, montare per mesi una campagna ad personam contro il presidente del consiglio in carica senza neppure uno straccio di avviso di garanzia come pretesto. In quale altro paese sarebbe stata ammissibile e di successo una campagna anti-nazionale tesa a mettere alla berlina in tutto il mondo l’Italia e gli italiani; dove altro si sarebbe festeggiato come un trionfo, con traduzioni e titoli in prima pagina, ogni più becero, risentito e interessato attacco contro l’Italia pubblicato anche dall’ultimo giornale del pianeta.
Si può parlare di informazione col bavaglio in un paese in cui dopo anni che non esce un nuovo quotidiano, quello fondato dalla congrega dei principali nemici di Berlusconi sbanca le edicole e fa il pieno di abbonamenti al suono lugubre di una grancassa giudiziarista?
E c’è davvero la preoccupazione per il “pensiero unico” e il “regime televisivo”, in un paese dove il principale competitor sul territorio nazionale delle aziende televisive del premier è un signore di peso planetario che ha messo tutte le sue numerose testate a sostegno della distruzione personale dell’avversario e inoltre possiede il monopolio della tv satellitare in Italia?
Si dirà, già lo sento, che Berlusconi se l’è cercata, che i suoi costumi licenziosi e imprudenti lo hanno portato a tutto questo. Sia pure, ma la libertà di stampa che c’entra. Se davvero Berlusconi ha avuto quello che si meritava, al limite vuol dire che il meccanismo funziona. E non saranno certo due cause per risarcimento danni il grande spauracchio che muove i paladini della libertà di stampa.
D’altro canto il teorico di questo tipo di contromisure è qualcun altro. Fu Massimo D’Alema nel gennaio 1998, in uno dei suoi momenti di ira funesta contro di giornalisti (c’era di mezzo “affittopoli”) che rivendicò la necessità di “un sistema che consenta una rapida ed efficace tutela in sede civile che preveda consistenti risarcimenti patrimoniali”. D’altronde quello che D’Alema pensa della libera stampa lo aveva già confidato a Lucia Annunziata su Prima Comunicazione: “Il livello di faziosità e di mancanza di professionalità è impressionante. Non esiste l'indipendenza dell'informazione: i giornali non sono un contropotere, ma un pezzo del potere. E come tali sono inattendibili. Il loro compito è la destrutturazione qualunquista della democrazia politica. Gli editori si contendono a suon di milioni i giornalisti più canaglia”. Aveva ragione.
Solo che nessuno si fece vedere con il cartello “canaglia” appeso al collo e nessuno ovviamente scese in piazza.
P. S. La libertà di stampa, la circolazione delle informazioni, il diritto a libere opinioni, sono temi seri e gravi, non andrebbero spesi per interessi di bottega, per difendere lo snobismo fazioso di certi giornalisti o per tentare nuove spallate politiche. (l'Occidentale)
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3 commenti:
leggere l'intero blog, pretty good
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molto intiresno, grazie
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