Diamo per scontati l’orrore e la pietà davanti allo scempio di Sanaa, la bella ragazza marocchina sgozzata dal padre. Ma restano ineludibili alcune riflessioni sul modo in cui si è cercato di spiegare l’accaduto. Osservano i sociologi che qui non siamo lontani dal delitto d’onore praticato fino a cinquant’anni fa nel nostro Meridione. Prendiamola per buona, anche se nel delitto di Pordenone assistiamo a una sommatoria di motivi, in cui riveste un peso non indifferente il fattore religioso. In ogni caso, il rilievo sembra viziato da una certa rassegnazione e da una sorta di ottimismo storico, come se bastasse dare tempo al tempo per mettere le cose a posto. Mentre cola il sangue, dobbiamo invece respingere con forza, per i nuovi venuti, una integrazione à rébours, non accettare passivamente che essi ripercorrano i momenti meno esaltanti della nostra storia. Come sembra esemplificare l’assassino che, va ricordato, risiedeva e lavorava in Italia da undici anni.
L’imam di Pordenone, deprecando l’omicidio, esibisce come prova a discarico il fatto che si tratta del primo caso verificatosi nella sua comunità (ma è anche il primo caso, probabilmente, in cui una donna ha osato uscire dai ranghi). Afferma poi che il padre di Sanaa non frequentava la moschea, era dunque un miscredente, a differenza della madre, che lui apprezzava per la sua devozione. Ma si tratta della stessa donna che non ha esitato a perdonare e a giustificare il marito. In seguito all’«errore» della figlia, era ridotto a uno straccio: «Non dormiva più, non mangiava, fumava in continuazione, dava pugni contro il muro» e, vien da concludere, doveva per forza mettere mano al coltello. E qui il problema si sposta. Prescindiamo dall’imam in questione, magari sfortunato o malaccorto. Ma sul fanatismo che sembra inquinare in modo sotterraneo le comunità musulmane, dove non mancano ovviamente le persone laboriose e civili, occorre tenere conto delle veementi parole di Dounia Ettaib, presidente dell’associazione Donne arabe d’Italia. Rammentando anche l’analogo assassinio della pachistana Hina, avvenuto a Brescia tre anni fa, denuncia il nefasto «indottrinamento di sedicenti e autoproclamatisi imam che dettano legge». Cosa aspetta lo Stato italiano - si chiede e chiediamo con lei - a esercitare un più severo controllo sulla loro predicazione? (la Stampa)
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