Silvio Berlusconi incontra quest’oggi a Roma Ignacio Lula da Silva e sarebbe una bella cosa se il presidente del Consiglio italiano spiegasse al presidente della repubblica federale del Brasile che l’Italia è uno Stato di diritto dove Cesare Battisti è stato processato e condannato in base alle leggi approvate dallo Stato democratico. Leggi e procedure che sono state sempre in vigore, anche nei momenti più difficili, come negli anni del terrorismo, quando alcune di esse vennero adattate ai tempi e rese più severe. Ma pur sempre applicate da corti e tribunali ordinari.
Il presidente Lula potrebbe così serenamente disporsi a decidere sull’estradizione del terrorista italiano, un tempo pistolero dei Pac (proletari armati per il comunismo) da venticinque anni in fuga dalla condanna all’ergastolo presa per aver partecipato a vario titolo a tutti i quattro omicidi commessi da quel gruppuscolo sanguinario che ondeggiava tra l’autonomia e le organizzazioni terroristiche. Sentenze di primo grado, confermate in appello e in Cassazione. Processi veri, ai quali Battisti, latitante, non ha partecipato ma nei quali è stato difeso dai suoi avvocati da lui nominati con lettere autografe giunte ai giudici di ogni grado e giudizio.
Insomma, condanne seguite a procedure regolari.
Di cui Lula potrebbe essere informato da Berlusconi e dai suoi ministri in modo da superare le suggestioni del clima da carnevale che anche in Brasile, dopo i fasti gauchisti parigini, si è allestito intorno al carcere dove Battisti attende la decisione della corte. In quelle manifestazioni si leggono cartelli che ripetono slogan grotteschi come questo: «Estradare Cesare è modernizzare l’inquisizione». «Cesare Battisti siamo tutti noi», dicono i dimostranti. Liberi di pensarlo. Sarebbe importante che non lo pensasse il governo brasiliano che è apparso finora invece attraversato da sospetti ed esitazioni.
Per questo è importante il modo in cui il nostro governo farà sentire il peso dell’interesse nazionale italiano sull’affare Battisti. È un interesse di giustizia, nient’altro. Silvio Berlusconi non è certo il leader più indicato a far da garante del nostro sistema giudiziario, ma in questo caso il conflitto di interessi che lo contrappone ai giudici inquirenti deve cedere di fronte all’interesse politico. Lula deve essere bene informato su come si sono svolti i processi, delle accuse e delle sentenze. Deve sapere che nessun giudice italiano ha accusato Battisti di reati politici o di opinione. Ma di aver ucciso personalmente il capo della guardie carcerarie di Udine, Santoro, di aver partecipato all’omicidio del macellaio Sabbadin di Mestre mentre i suoi complici facevano il tirassegno sull’orefice di Milano Torreggiani; e infine di aver partecipato all’agguato mortale contro l’agente della Digos Campagna, colpevole soltanto di aver fatto da autista ai suoi colleghi in una retata di autonomi alla Bovisa. Azioni di atroce vendetta sociale istruite ed esaminate in un processo dove non sono stati messi sotto accusa i progetti politici di Cesare Battisti e dei suoi compagni, ma i loro delitti. Le condanne sono state decise in base a prove, testimonianze e alle confessioni dei complici.
Peraltro Battisti, fino a quando si è sentito protetto dal calore dello snobismo parigino non si era mai troppo preoccupato di negare le sue responsabilità («Mi sono macchiato le mani non solo d’inchiostro», disse in un’intervista), trasfigurandole anzi nel mito dell’intrepido sovversivo sociale che piace tanto agli intellettuali della riva sinistra della Senna. E il suo libro più noto («Dernières cartouches», le ultime cartucce) racconta con parafrasi ma anche una relativa precisione tutta l’avventura dei Pac, omicidi compresi.
Dopo averlo protetto per quindici anni, la Francia l’ha poi scaricato, a modo suo: i giudici hanno concesso l’estradizione, i servizi segreti (certo non per iniziativa propria) l’hanno aiutato a fuggire in Brasile, come lui stesso ha raccontato. La patata è ora nelle mani di Lula, l’ex operaio sindacalista diventato a sorpresa il leader del boom brasiliano. Ieri Massimo D’Alema lo ha incontrato, ma ha fatto sapere di non aver voluto parlare di Battisti con il presidente companheiro: «Non ne abbiamo parlato, perché la questione è nelle mani della magistratura che deciderà entro qualche giorno». È un peccato, perché nella cause di estradizione i giudici danno pareri giuridici, ma la decisione è sempre politica, dei governi. E D’Alema avrebbe potuto spiegare al Presidente brasiliano che la battaglia contro il terrorismo in Italia è stata combattuta da tutti, compresa la sinistra politica e sindacale. Speriamo lo faccia il governo in carica. (la Stampa)
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