E’ in corso un importante giro di nomine, che rimette in moto la giostra del potere. I più si soffermano a studiare la mappa degli spostamenti, seguendo la ragnatela delle amicizie, delle gratitudini, dei crediti accesi e dei debiti saldati, cercando di prevedere l’andamento del borsino dei potenti, anche per correre a raccomandarsi con i potentati di riferimento. Nel calderone finisce di tutto, non distinguendosi le autorità di garanzia (dalla Consob all’Agcom all’Antitrust) dalle aziende detenute dallo Stato (dalle Ferrovie alla galassia Rai) passando per le casseforti finanziarie e consulenziali (dalla Cassa Depositi e Prestiti a Invitalia). Né, di distinguere, sembrano capaci i candidati e gli aspiranti, che passano da una funzione all’altra, con evidente consapevolezza delle proprie capacità. In questo festival del “dove vado e cosa mi dai”, si segnala la vera anomalia del mercato italiano, cui nessuno sembra far caso.
Al tema ci s’accosta, nella gran parte dei casi, col lo stesso spirito con cui si partecipa ad un pettegolezzo: sai, il Tizio ha litigato con Caio, perché non ha fatto il piacere a Sempronio, ma ora viene risarcito dal Tale, perché fece comodo ai suoi amici della M’inciucio Spa. Oppure si usano unità di misura inappropriate, come quelle dell’età: Lamberto Cardia, ho letto, non solo è in Consob dal 1997, non solo ha 76 anni, ma s’appresta a prendere la presidenza delle ferrovie. La meritocrazia è così distante dai costumi nazionali che ci s’attacca a tutto, anche all’anagrafe, pur di non misurare le persone in base alle capacità e alle competenze.
Ma lasciamo perdere la meritocrazia, tanto sono parole al vento, vengo al dato più macroscopico, quello talmente evidente che nessuno ci fa caso: è mai possibile che nessuno di questi signori voglia diventare ricco? I soldi, se lecitamente guadagnati, sono un tributo alle capacità e al successo, perché gente di così alto valore professionale preferisce restare a reddito fisso e garantito? Non solo lo preferisce, ma si batte strenuamente per non perdere la “sistemazione”, composta da soldi, ufficio, macchina con autista, segretaria e onori annessi, compresi gli inviti al Quirinale. La risposta è: perché il nostro è un sistema malato, in cui il mercato è occupato dallo Stato e il personale che lo amministra vale poco e niente, sul mercato.
In un sistema sano il percorso dovrebbe essere quasi opposto: ci si distingue per bravura e, in ragione di ciò, si viene scelti per una determinata funzione pubblica; la si assume come un onore e la si onora con spirito di servizio, essendo pagati meno di quel che si vale nel mercato, ma arricchendosi di conoscenze e mestiere; quindi si conclude l’esperienza e si torna alla propria professione, monetizzando anche le tante cose che si sono imparate, diventato, se possibile, ricchi. Così dovrebbe essere, così succede nei sistemi sani. Da noi no. Da noi mi sento ancora rimproverare (scusate il riferimento personale) di avere collaborato all’elaborazione di leggi e, poi (dopo otto mesi), essermi “venduto” a quelli che quelle leggi dovevano applicare. Ma è esattamente così che si dovrebbe fare, non rimanendo per tutta la vita a carico della spesa pubblica.
Coltiviamo, invece, l’impermeabilità fra Stato e mercato, così accrescendo due mali: quello di una classe di mandarini, che si scambiano il posto ma non cambiano la funzione, e quello di un’imprenditoria che non sente le regole come proprie e non le vive come valori, ma solo come ostacoli e impedimenti. Per giunta con ragioni da ambo le parti, perché nell’eterna conservazione dell’esistente occorrono, nelle autorità pubbliche, più capacità d’aggirarsi nella selva delle regole che non visione strategica e volontà di disboscare, e, del resto, quelle regole sono così cervellotiche e intimamente immorali che c’è un solo modo per sopravvivere loro, farle fesse. Così proseguendo precipitiamo il Paese nella regressione corporativa e medioevale, consegnandone il governo ai magistrati amministrativi e delegando ai briganti l’innovazione. Un gran successo, non c’è che dire.
Statene certi, la fiera delle nomine si chiuderà, si conteranno i vincenti e i perdenti, i traslocati e i relegati, ma i loro nomi saranno sempre gli stessi, anche perché la nostra classe dirigente s’è immiserita in modo drammatico, perdendo quel minimo d’anticorpi che imponeva di non forzare la spartitocrazia oltre un certo limite. La mattina dopo, quando le caselle saranno riempite, ciascuno prenderà le misure per continuare il proprio Monopoli, ma, alla fine, tanto i regolatori e controllori, quanto i regolati e controllati, sapranno parlare la stessa lingua, quella del convivere, accomodare, intessere relazioni. Non ci perde nessuno, quindi? Eccome: è la disfatta del merito, l’umiliazione della qualità, la frustrazione delle speranze e l’eterna emarginazione dei giovani e dei non inseriti.
Poi, se volete, cambiate pure qualche articolo della Costituzione (che andrebbe cambiata su larga scala), così ci campiamo di seminari, nei prossimi anni.
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