Siamo adulti e vaccinati, e quindi comprendiamo bene l’esigenza di un leader politico in difficoltà di reinventarsi, di cercare nuove strade, di immaginare un nuovo “racconto”, di aprire nuovi sentieri. È il caso di Walter Veltroni: sconfitto alle elezioni, estromesso dalla guida del suo partito, improvvisamente un po’ più solo dopo anni di potere (nazionale e romano), l’ex segretario del Pd avrebbe potuto dare finalmente seguito alla sua idea, per lunghi anni solennemente annunciata sui giornali e alla tv, di dedicarsi ad altro, e in particolare all’Africa. E invece no: è prevalsa una rispettabilissima voglia di rimanere in campo e di riproporsi su un terreno tradizionalmente politico.
Pensa e ripensa, c’era una sola cosa che poteva tenerlo dentro il dibattito politico ma (apparentemente) lontano dai tatticismi dell’arcinemico D’Alema, consentendogli di darsi un’immagine fortissimamente antiberlusconiana (e quindi non sgradita al “partito di Repubblica”, alle procure, ai santoristi, ai dipietristi, ecc.) e al tempo stesso di tentare di agganciare un pezzo di opinione pubblica che oscilla “savianescamente” tra una giusta esigenza di pulizia della vita pubblica e una spiacevole e pericolosa furia moralistica, dalla quale non è mai nato nulla di solido e meno che mai di liberale. Elementare, Watson: si trattava di riciclarsi in veste antimafia. E allora, nel breve volgere di pochi mesi, ecco l’ingresso nella commissione parlamentare antimafia e una serie di sortite pubbliche, fino all’ultima “rivelazione”: la necessità di riscrivere la storia delle stragi mafiose del ‘93, insinuando un oggettivo (e chissà, forse non solo oggettivo) ruolo di quegli eventi nell’aprire la strada ad una nuova forza politica (indovinate voi quale).
A ben vedere, la fragilità di tutto l’impianto appare evidente, per almeno quattro buone ragioni. Primo: se Veltroni sa qualcosa di concreto e di preciso, ha il dovere di recarsi da un magistrato e di formulare accuse precise e circostanziate. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie. Secondo: è per lo meno curioso che tutta questa “voglia di verità” venga fuori solo adesso, diciassette anni dopo, al termine di tre lustri e mezzo nei quali Veltroni non è stato un “quisque de populo”, ma un Vicepresidente del Consiglio, un ministro, un sindaco di Roma e un Segretario del secondo maggior partito italiano. Terzo: il governo Berlusconi è l’Esecutivo che ha centrato una serie di successi impressionanti nella lotta contro la criminalità organizzata (361 superlatitanti arrestati, 4000 beni confiscati, oltre 2 miliardi sottratti ai boss). Tutto ciò è forse merito di Veltroni e dei suoi laudatores? Quarto: chiunque non sia culturalmente e politicamente bollito è stufo della solita minestra riscaldata, quella per cui l’intera storia d’Italia degli ultimi cinquanta-sessant’anni andrebbe letta come un mostruoso complotto anti-Pci (ad opera dei “perfidi” americani, con la complicità assortita di mafia, massoneria, servizi deviati e manovalanza terroristica varia) per impedire ai comunisti di arrivare al governo. Davvero Veltroni, nel 2010, crede di poterci ancora ammannire questa roba?
I consigli si danno solo a chi li chiede, ma, se proprio possiamo fornire qualche suggerimento gratis, sarebbe il caso che Veltroni si dedicasse a “misteri” che sono più alla sua portata e sui quali potrebbe fornire informazioni dirette e di prima mano. Un paio di esempi? La partecipazione del Pci-Pds-Ds alla lottizzazione Rai degli ultimi trent’anni, e il buco emerso nel bilancio del Comune di Roma al termine dell’avventura del Veltroni sindaco. Ma è comprensibile che occuparsi di questo gioverebbe un po’ meno alla self-promotion veltroniana. (il Velino)
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