“Se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa nostra, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa nostra ha tale forza, compattezza e autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia: mai, però, in posizioni di subalternità”. Così Giovanni Falcone, in un articolo pubblicato postumo sull’Unità del 31 maggio 1992, dava la propria idea del rapporto tra mafia e politica negli anni in cui a indagare era il pool antimafia di cui egli era l’anima. Le ombre oggi tornano e l’accusa si aspetta che il processo Dell’Utri riscriva la storia: sull’Unità di venerdì, Nino Gatto, il procuratore generale del giudizio d’appello contro il senatore del Pdl, parla di un “interscambio tra mafia e politica che germoglia”. Mentre le indagini sui presunti intrecci tra “poteri occulti” e mafia vengono chiuse e poi riaperte, nuovamente archiviate e poi di nuovo riprese, con una sequenza che dura da diciotto anni. In attesa che la sentenza Dell’Utri, come dice il pg Gatto, costruisca lo scalino su cui poi costruirne altri, per arrivare a verità mai scoperte.
Ma chi possiede la verità? L’idea di Falcone era abbastanza chiara: “Gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere – scriveva nello stesso articolo pubblicato dall’Unità – costituiscono tuttora nodi irrisolti… Fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti, non si potranno fare molti passi avanti”. Ma il giudice ucciso a Capaci non aveva preconcetti, non partiva da teoremi, non parlava di entità, non considerava tutta la politica come nemica: e infatti quando gli era stata offerta su un piatto d’argento la “verità” su uno di questi omicidi eccellenti, quello che aveva visto cadere il presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, il magistrato aveva immediatamente incriminato per calunnia il “pentito” Giuseppe Pellegriti che falsamente accusava come mandante Salvo Lima. Di fronte alle sue palesi fandonie, come ha sempre spiegato anche il pm che andò con Falcone a interrogare Pellegriti, Giuseppe Ayala, Falcone non esitò un istante a procedere contro di lui.
In un articolo pubblicato su “Centonove” (“Giovanni Falcone: avversato da vivo, santificato da morto”) Umberto Santino, presidente del Centro Impastato, ricostruisce punto per punto l’amarezza del giudice silurato dai suoi colleghi al Csm e bocciato dallo stesso Consiglio, che gli aveva preferito Antonino Meli come consigliere istruttore. Di fronte a un capo come Pietro Giammanco alla procura di Palermo, il giudice aveva poi accettato l’invito di Claudio Martelli, ministro della Giustizia del governo Andreotti, ed era andato alla direzione degli Affari penali del dicastero di via Arenula. Attirandosi gli strali dell’Unità, che il 12 marzo del 1992 lo aveva definito inadatto al ruolo di capo della costituenda Superprocura antimafia. “Il perché era esplicito – scrive Santino –. Troppo legato a Martelli. Meglio Cordova, l’ex procuratore di Palmi approdato a Napoli”.
Mai, insiste Santino, Falcone aveva parlato di terzo livello, della cupola politico-mafiosa che avrebbe diretto le strategie occulte, ma di tre livelli dei reati di mafia. E, forse per questo, era stato accusato dall’antimafia militante di avere “tradito” la “causa comune”. Eppure era stato lui a scoperchiare il calderone infetto di don Vito Ciancimino, politico mafioso a tutti gli effetti. Ma questo non bastava. I professionisti dell’antimafia, capeggiati da Leoluca Orlando, accusarono Giovanni Falcone di nascondere nei suoi cassetti le prove contro gli uomini politici collusi con i boss. Ma il magistrato non si lasciò intimidire e continuò per tutta la vita a rifiutare il teorema del tavolo ovale al quale sedevano insieme, per decidere stragi e delitti, sia rappresentanti della mafia che quelli della politica.
Falcone saltò in aria il 23 maggio del 1992, Paolo Borsellino il 19 luglio, e da allora non passa giorno in cui non si cerca il mandante occulto di quelle stragi. Cioè l’entità, per dirla con il procuratore nazionale Piero Grasso, che avrebbe voluto eliminare nel ’92 i due giudici antimafia e, l’anno successivo, avrebbe ordito le trame che portarono ad altre bombe a Roma, Firenze e Milano. Le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze hanno collezionato una serie di indagini, sempre chiuse per mancanza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma anche per la mancanza di tempo necessario a completare le verifiche. Da un’inchiesta all’altra, senza soluzione di continuità. Silvio Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati da tutti e tre gli uffici inquirenti e le loro posizioni sono state sempre archiviate. Dell’Utri è finito sotto processo per concorso esterno e ha avuto nove anni in primo grado. Ora si aspetta che “il gradino”, come lo ha chiamato il pg Gatto prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, venga demolito o faccia da base per costruirne altri. (il Foglio)
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