Ci risiamo con la Fiat. Dopo aver riorganizzato il gruppo predisponendo che, da ora in poi, il settore dell’auto vada per suo conto in giro per il mondo, in autonomia dalla famiglia, e diventi sempre più una public company di governance e di respiro internazionali, l’ad Sergio Marchionne ha lasciato tutti di stucco annunciando che la "monovolume" si farà in Serbia, dove il sindacato è più serio di quello italiano (ma esiste un sindacato in Serbia ?).
Le parole di Marchionne hanno suscitato le solite reazioni di casa nostra. A Torino si sono subito preoccupati per il destino di Mirafiori, tanto che - con il solito riflesso condizionato, sempre più assurdo - i lavoratori hanno scioperato.
La Cisl e la Uil si sono risentite per essere state genericamente accomunate in un giudizio severo sul sindacato italiano che, a loro avviso, non teneva ingenerosamente conto del loro impegno a risolvere i problemi, come avvenuto ultimamente a Pomigliano d’Arco.
La Fiom, nell’imbarazzo della Cgil, ha trovato un’ulteriore conferma della sua delirante strategia secondo la quale basterebbe scioperare di più per costringere la Fiat a restare e ad investire in Italia.
Intanto, il ministro Sacconi ha convocato le parti predisponendo l’agenda dell’incontro sulla base di una premessa di buon senso: prima di fasciarsi la testa è meglio aspettare di essersela rotta.
Anche il sindaco Sergio Chiamparino si è mosso sulla medesima linea del ministro, prendendo direttamente contatto con Marchionne ed accertandone la disponibilità a farsi carico dei problemi di Mirafiori. Si tratta, infatti, di sottoporre a verifica il piano denominato "Fabbrica Italia" rendendolo il più possibile compatibile con gli impegni internazionali del gruppo. La questione non può essere affrontata contrapponendo gli insediamenti all’estero a quelli in Italia. Un’azienda multinazionale deve articolare la sua presenza sul mercato globale, utilizzando ogni possibile convenienza offerta dalle politiche fiscali degli Stati e dal costo del lavoro della manodopera. Avere un’equilibrata presenza sui mercati internazionali – a costi concorrenti e competitivi – è anche una garanzia per la stabilità delle produzioni italiane. Del resto, che fosse all’esame un investimento in Serbia non era un segreto.
Nel confronto con la Fiat si dovrà preliminarmente verificare la compatibilità tra lo spostamento (e in quale misura?) della produzione della monovolume in Serbia e la saturazione degli impianti a Mirafiori, al di fuori della retorica sul significato della lettera "t" posta alla fine della ditta (che, come si sa, è il nome dell’impresa). Poi, gran parte del sistema Paese deve smetterla di versare lacrime da coccodrillo.
E’ tempo, invece, di riflettere sull’atteggiamento con cui l’establishment mediatico e culturale del Paese ha seguito e commentato una delle più importanti iniziative di politica industriale degli ultimi vent’anni: l’investimento di 700milioni a Pomigliano d’Arco.
In sostanza, la vicenda dello stabilimento Giambattista Vico è stata riassunta nel seguente interrogativo: è giusto rinunciare ai diritti in cambio di lavoro? Sulla base di questa rappresentazione fasulla della realtà i sindacati favorevoli all’intesa sono apparsi come succubi del "padrone" e i lavoratori che hanno votato sì come i soliti replicanti del vizio italiano del "tengo famiglia". La solfa dei diritti (addirittura di rango costituzionale) calpestati mediante il "vile ricatto" del lavoro è stata avallata da fior di giuslavoristi, quegli stessi che nelle Università insegnano ai nostri figli e preparano gli operatori del diritto di domani. In particolare, si è sostenuto che l’accordo conculcava il diritto di sciopero. Per sostenere questa tesi si è arrivati a teorizzare l’astensione dal lavoro come un diritto individuale indisponibile, inalienabile e assoluto, ben al di là di quanto dispone l’articolo 40 Cost.
In sostanza, il manager di un’azienda che negli Usa dialoga con Barack Obama, da noi è stato accusato di tentazioni schiavistiche, nel momento in cui si impegnava ad investire in uno stabilimento e in un’area del Sud dove tante sono le criticità.
Certamente, Marchionne è un "duro", un manager cresciuto ad una scuola dove s’insegna a non guardare in faccia a nessuno quando sono in gioco gli interessi del business.
Il sistema Italia preferisce i manager delle partecipazioni statali che elargivano emolumenti fuori mercato e mantenevano in vita posti di lavoro finti, magari riempiendosi la bocca di concetti come "politica industriale", "concertazione", "piani d’impresa" e quant’altro. Quei manager hanno lasciato dietro di sé una lunga fila di stabilimenti chiusi dopo aver dilapidato immense risorse pubbliche. L’ultimo esempio di quell’andazzo è stata l’Alitalia, la cui salvezza, nel tempo, costerà al Paese come una manovra finanziaria. (l'Occidentale)
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