Le prime fasi della campagna elettorale, con la scelta di liste «bloccate» di candidati, nei confronti dei quali gli elettori non possono esprimere preferenze, sembrano dominate da due illusioni.
Le forze politiche sembrano spesso illudersi che sia sufficiente candidare personaggi variamente noti per motivi estranei alla politica per convincere un numero consistente di elettori a votare la lista per la simpatia del personaggio anche se di quella lista non condividono obiettivi e strategie politiche. La seconda illusione riguarda invece questi candidati noti, o addirittura famosi ed è la convinzione che sia facile operare efficacemente arrivando ai vertici della politica, ai seggi di Montecitorio e Palazzo Madama o addirittura alle poltrone di ministro, senza alcuna adeguata esperienza di decisioni pubbliche, di tipo politico e amministrativo; senza, quindi, una «carriera» politica nel senso di esperienze politiche precedenti.
L’attrazione della politica è particolarmente forte per esponenti delle cosiddette «parti sociali», imprenditori e sindacalisti, la cui attività all’interno delle rispettive associazioni presenta - per il genere di problemi trattati e per le conseguenze pubbliche delle loro decisioni - caratteristiche non troppo dissimili da quella all’interno delle aule parlamentari e ha portato alla candidatura di due imprenditori molto noti nelle liste del Partito democratico.
In realtà, politica e impresa presentano numerosi punti di somiglianza ma, come molte cose assai simili, risultano poi difficili da conciliare alla prova dei fatti. Il declino della cosiddetta Prima Repubblica insegna che non si può ridurre l’impresa a un fatto meramente o prevalentemente politico e precisamente questo tentativo di riduzione ha prodotto una lunga serie di disastri industriali, dalle «cattedrali del deserto» del Mezzogiorno alle disavventure dell’Alitalia (che proprio nei giorni scorsi ha annunciato una drastica riduzione della liquidità disponibile). Per converso, le esperienze della cosiddetta Seconda Repubblica - e in particolare il primo governo Berlusconi - mostrano che non si può ridurre la politica a un fatto imprenditoriale senza compiere gravi errori.
Non è quindi sufficiente mettere insieme, all’interno di una forza politica, imprenditori e sindacalisti perché si abbia una sublimazione del conflitto sociale; al contrario, si potrebbe avere un trasferimento di tale conflitto all’interno di un partito o di un governo con un forte freno alla sua capacità di agire. Le vicende dell’attuale governo ne sono una chiara dimostrazione. Ugualmente insoddisfacente appare la soluzione di «affidarsi ai tecnici»: purtroppo è ormai divenuta quasi una tradizione in Italia quella di affidare a un «tecnico» il ministero dell’Economia. Il principale risultato di questa prassi è di aver contribuito potentemente a creare una generazione di politici che non sa leggere il bilancio dello Stato. Questo analfabetismo nei confronti dei conti pubblici, unito alla scarsa esperienza del funzionamento della «macchina» amministrativa, porta a una difficoltà a formulare proposte di governo coerenti con lo stato delle finanze pubbliche.
È quanto si evince da un’analisi pubblicata qualche giorno fa da Il Sole 24 Ore, relativa agli effetti sui conti pubblici delle promesse elettorali e con particolare riguardo al programma delle attuali forze di opposizione. Si alimentano così illusioni pericolose di poter risolvere in poco tempo qualsiasi problema con un pizzico di «buona volontà» e qualche breve articolo di legge. Nella foga della campagna elettorale rischiamo di ridurre i programmi alle promesse, in una sorta di menu gratuito mentre l’economia insegna che «nessun pasto è gratis».
Il ruolo della politica non dovrebbe essere quello di esprimere buone intenzioni ma quello di contemperare le «istanze» delle parti sociali, come il «decalogo» presentato ieri dal presidente di Confindustria, in modo da dar vita a programmi sostenibili, e non cedere all’illusione che le «istanze» si trasformino in programma quasi per un colpo di bacchetta magica.
Questa diversità tra istanze e programma chiarisce la diversità di ruoli tra parti sociali e forze politiche: sta alle prime segnalare ciò che non va, magari suggerendo le vie per eliminare le disfunzioni, alle seconde di predisporre meccanismi e risorse perché le disfunzioni siano eliminate davvero. Sta al sindacato denunciare l’inadeguatezza dei redditi di numerose fasce salariali, alle organizzazioni degli imprenditori chiedere semplificazioni amministrative e potenziamento delle strutture (due punti del «decalogo» sopra citato); sta invece ai politici dare risposte operative su questi punti.
La confusione tra istanze e programmi non può non rivelarsi un elemento di disordine: proprio quello che si vuole evitare perché l’Italia ritrovi la via dello sviluppo. (la Stampa)
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