Venti anni dopo il Psi di Craxi, il Partito democratico ha scoperto l'Italia. Nei suoi comizi Walter Veltroni non fa che evocarla, che parlare di Italia, di nazione (riecheggia di continuo sulla sua bocca «siamo un grande Paese, una grande nazione»), spesso di patria. E alla fine di ogni suo incontro è ormai d'obbligo l'inno di Mameli compuntamente intonato da tutti i presenti. Nulla da obiettare, naturalmente. Solo che parlare tanto di nazione, se non si vuole suscitare qualche sospetto di strumentalità, richiede pure che si traggano certe conseguenze. Per esempio che ci si interroghi circa lo stato di salute di quella nazione medesima. Dunque che si guardi oltre un'ottica banalmente politica legata all'attualità, bensì agli elementi di cui una nazione è realmente fatta; e cioè, per cominciare, che si cerchi di capire se il tessuto che lega un popolo a una storia e a uno stato, nel quadro di una determinata costituzione politica, è ancora sano, se tiene ancora. Quale occasione migliore, del resto, di una campagna elettorale, della prima campagna elettorale di un grande partito che mira a grandi traguardi? Tanto più che salta agli occhi che quel tessuto di cui dicevo si sta ormai logorando ogni giorno di più. Che gli elementi di cui è fatta la nazione Italia, che sono valsi a tenerla storicamente insieme e in cui essa consiste, stanno cedendo e sono forse sul punto di venir meno. Stanno forse venendo meno insomma parti decisive dello stesso progetto iniziale su cui fu edificato 150 anni fa lo Stato nazionale. Una visione troppo pessimistica? I dati di fatto dicono di no, mi pare. A cominciare dal dato in certo senso più simbolico perché consustanziale all'idea medesima di Stato, quello della giustizia. Secondo stime del Censis a fine 2005 erano oltre 5 milioni (5 milioni!) i procedimenti pendenti in tutte le sedi della giurisdizione penale, e oltre 3 milioni quelli pendenti nella giurisdizione civile. Giurisdizione che è sempre più disertata da chiunque ne abbia appena qualche possibilità. In pratica nessuno pensa più, in Italia, che lo Stato nazionale possa rappresentare lo strumento per riparare un torto di natura non penale: e per primi non lo pensano gli stranieri, i quali proprio in ciò vedono un motivo spesso decisivo per non avere rapporti qui con noi. Quanto alla giustizia penale, che cosa bisogna ancora dire che ormai non sia stato già detto mille volte? Che bisogna ancora dire del modo d'essere e dell'efficienza dei magistrati? Dell'esasperazione personalistica con cui i pm gestiscono perlopiù il loro ruolo? Del modo come opera il Consiglio superiore sulla base delle opinioni politiche prevalenti al suo interno? Del segreto istruttorio, delle amnistie? Semmai ci sarebbe da sapere che cosa ne pensa, e soprattutto che cosa ne dice, Veltroni. Se pensa che un grande Paese come l'Italia debba avere un sistema giudiziario come il nostro: ovvero che cosa di concreto bisognerebbe fare a suo avviso per averne uno diverso. Ma su questo tema non sembra che il segretario del Pd abbia fin qui voluto spendere una parola. Come non ha speso una parola, se non mi sbaglio, sulla voragine in cui sta precipitando il Mezzogiorno.
Eppure l'Italia è stata pensata a suo tempo come un paese intero, e forse è ancora una nazione sola. Invece, dal Volturno in giù, dopo che sono falliti tutti gli «aiuti», tutte le «industrializzazioni», tutti gli «sviluppi», ormai in un gran numero di casi, come dimostra la Napoli di Bassolino (difeso peraltro fino all'ultimo proprio dal segretario del Pd), sta fallendo anche l'autogoverno locale, cioè la prima espressione della democrazia. E sulle sue macerie signoreggiano sempre più le associazioni delinquenziali. Sentiamo ancora il Censis: oltre il 70% delle popolazioni di Campania, Puglie, Calabria e Sicilia (cioè il 22% circa dell'intera popolazione della penisola) vive in comuni dove dilaga «la forza pervasiva della criminalità organizzata ». A Napoli e a Palermo, le due storiche capitali del Sud, «quasi la totalità degli abitanti convive con le organizzazione criminali»: e si sa cosa ciò significa nei fatti. Ebbene cosa ne pensa Veltroni, il patriota Veltroni? Che cosa pensa che dovrebbe fare in circostanze del genere un ministro degli Interni «italiano», di una nazione che volesse ancora considerarsi tale? Non glielo abbiamo mai sentito dire. Alla fine però un Paese non è solo l'effettivo esercizio della giustizia e della sovranità su un territorio. E' soprattutto gli uomini e le donne che lo abitano, la loro mente e il loro cuore, la loro visione del mondo presente e di quello passato. Un Paese è dunque la sua scuola. Ebbene, ha un'idea Veltroni delle condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico? A sentirlo ripetere rancide formulette sulla «creatività dei ragazzi», sulla necessità di andare «oltre i temi», per esempio facendo girare agli studenti un film, o altre «puttanate» del genere, come le ha definite Massimo Cacciari, si direbbe proprio di no. Che non abbia alcuna idea degli edifici scolastici vilipesi e sfregiati in mille modi che costellano quasi tutti i panorami urbani italiani; degli ultimi decenni di riforme ridicole e tutte regolarmente naufragate, volute da pedagogisti di regime convinti che l'educazione e l'istruzione fossero risolvibili essenzialmente nelle tecniche di apprendimento. Che non abbia alcuna idea degli insegnanti in grandissima parte demotivati o, più spesso, del tutto impari al loro compito; dell'incubo cartaceo-riunionistico in cui sono costretti a passare gran parte del loro tempo; di tutto il sistema disciplinare e del rapporto tra la scuola e le famiglie che sono ormai disintegrati. Che nulla sappia del vuoto spirituale (sì, usiamo le parole appropriate: spirituale. Perché lo spirito può prendere mille forme, ma senza di esso nessuna sostanza è mai possibile) che domina una scuola ridotta nella sua essenza a un'insulsa macchina burocratica. Veltroni se ne convinca dunque: l'Italia, il grande Paese, è ahimè questo, non altro. Una nazione senza giustizia, senza scuola, terra di conquista della malavita. Cioè una nazione che vive processi di decomposizione mortali: dai quali forse può salvarsi, sì, ma solo se chi si candida a governarla ha il coraggio di chiamarli per nome. Non di parlare d'Italia per parlare d'altro. (Corriere della Sera)
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