Ah, se Hillary Clinton avesse sentito Gaspare Spatuzza! Sai le risate. Invece le toccherà occuparsi di Amanda Knox, condannata a ventisei anni di carcere, per omicidio. Una senatrice democratica, eletta nello stato di Washington, si è domandata se, in assenza di prove decisive, quella condanna non sia il frutto di sentimenti antiamericani, presenti in Italia. Le rispondiamo subito: no. La questione è più delicata e profonda. Aggiungo: con ogni probabilità, negli Stati Uniti, i due imputati sarebbero stati assolti.
Non è una questione di severità, ma di sistema. Gli Stati Uniti, del resto, non scherzano, né in quanto ad errori giudiziari, né in quanto a durezza. Ne sono stati commessi, di errori, anche mandando a morte degli innocenti. E l’esistenza della pena di morte, non è certo un sintomo di morbidezza. La Corte Suprema, oltre tutto, ha ribadito che possono essere giustiziati anche assassini che non ci stanno del tutto con la testa, o persone che erano minorenni quando commisero l’omicidio. Da noi, invece, una Corte d’Assise giudica colpevoli d’assassinio due persone, ma concede le attenuanti generiche, in modo da non dovere condannare all’ergastolo. Non entro nel merito, non prendo parte alle tifoserie giudiziarie, ma osservo che siamo noi, eventualmente, i “troppo buoni”. La logica statunitense non è spietata, bensì semplicemente logica, con forti radici morali e religiose: tu, individuo responsabile e padrone di te stesso, tu, uomo libero, potevi scegliere, ed hai scelto di fare del male, quindi tu, colpevole davanti alla collettività, devi pagare, in ragione del male compiuto. Se hai tolto la vita, perderai la vita. Il punto, però, non è la pena, ma come si arriva a comminarla.
E qui le cose si capovolgono, perché siamo noi ad essere i cattivi, per approssimazione. L’individuo responsabile deve pagare, anche conti mortali, ma lo Stato americano, prima di condannare, deve essere certo della colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Tale certezza è data dal giudizio indipendente della giuria, e dal rispetto scrupoloso delle regole e delle garanzie, assicurato da un giudice professionale (il “vostro onore”). Ricordate il caso di O. J. Simpson? E’ istruttivo.
Il ricco e nero giocatore di football americano era accusato di avere ammazzato la moglie, bella e bianca. Una prova, forse decisiva, consisteva in un guanto, che si suppone fosse stato utilizzato per l’omicidio. Si suppone soltanto, perché il poliziotto che lo raccolse lo fece in modo irregolare, facendo venire meno la genuinità della prova e spingendo il presidente a considerarla non utilizzabile, talché impose alla giuria di non tenerne conto. Simpson fu assolto. In Italia lo avrebbero condannato un centinaio di volte, e se qualcuno avesse avuto da ridire circa il modo in cui il guanto era stato trovato ed acquisito, lo avrebbero ricoverato al manicomio. Chi se ne frega, avrebbero detto tutti, è evidente che il damerino ha scannato la moglie, quindi non importa stare a cincischiare su come raccattarono il guanto. Ergastolo. Dal punto di vista “sostanziale”, sarebbe stato anche giusto. Dal punto di vista “formale”, hanno ragione gli statunitensi. Ed è qui che s’incarnano due culture.
Da noi se avanzi dubbi su un sospettato, ti dicono: qualcuno deve pur averla ammazzata. Da noi conta che ci si convinca di una ragionevole colpevolezza. Vale, spesso, la sostanza. Nel processo accusatorio, invece, conta la forma, perché solo quella garantisce la genuinità del verdetto. Che può sempre essere sbagliato, naturalmente, ma non imposto dal pregiudizio o dalla piazza. La forma è sostanza, nel diritto, mentre, da noi, troppo spesso, il sostanzialismo distorce le regole. Gli americani, difatti, impallidiscono al sapere che i giurati del processo ad una loro concittadina fossero costantemente esposti a televisioni, radio e giornali, potendo leggere e guardare, in diretta, il loro stesso lavoro. Negli Usa vengono isolati, altrimenti sono i giornali a scrivere le sentenze e la camera di consiglio si tiene al bar. Hanno ragione loro.
Escludo, invece, i sentimenti antiamericani. Certo andazzo lo pratichiamo anche a noi stessi. Si prenda Spatuzza e si ragioni formalmente: questo signore, killer di professione, arriva in aula e si prostra innanzi al suo padrino, deponendo non su cose che conosce, ma che gli hanno raccontato. “De relato”, si dice, e significa: per sentito dire. In un’aula statunitense il presidente avrebbe chiamato a sé l’avvocato della difesa e quello dell’accusa (l’idea che possa essere un suo collega neanche lo sfiora, supponendo sia un’ipotesi tribale, mentre è la legge italiana) e avrebbe detto loro: quanto dura, questa buffonata? Ritenete che il teste abbia qualche cosa da dire, su cose che conosce direttamente, o avete scambiato la mia aula per un teatro? Dopo di che, si sarebbe rivolto alla giuria ed avrebbe detto: di quel che avete sentito non dovete tenere alcun conto, è stato un errore dell’accusa presentare un simile teste, che non aveva nulla di pertinente da dire. Ammonisco tutti ad attenersi alla procedura.
Noi, invece, ne parliamo da giorni, con le menti che si pensan pensanti tutte pronte a dire la più colossale delle scemenze: ci vogliono i riscontri. Ma di che? Se non c’erano di già quello neanche avrebbe dovuto parlare! Leggendo la stampa internazionale, del resto, la stessa Clinton avrà trovato traccia di questa roba, che, ora, la aiuterà a capire quanto il problema non consiste nell’avercela con gli americani, ma l’essere un Paese nel quale ancora può circolare chi sostiene che “il sospetto è l’anticamera della verità”, anziché della barbarie.
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