Nessuno sa se la crisi è davvero finita, né quando l’economia mondiale tornerà a correre, né se capiterà ancora di sperimentare lunghi periodi di crescita. Quel che invece si può già tentare è un primo bilancio della crisi in Italia, a oltre due anni dal suo inizio oltreoceano, quando scoppiò la bolla dei mutui immobiliari americani (agosto 2007). Sull’impatto della crisi circola da tempo una diagnosi - accreditata da diverse e autorevoli istituzioni, dalla Chiesa alla Banca d’Italia - secondo cui la crisi avrebbe colpito soprattutto i deboli. Ma è davvero così?
Molti elementi fanno pensare il contrario. Il primo impatto della crisi, si ricorderà, fu di tipo finanziario, con il crollo dei titoli azionari: questo meccanismo colpì innanzitutto i ceti superiori, ben più esposti a questo genere di rischi di quanto lo siano i piccoli e medi risparmiatori. Poi, poco per volta, la crisi si estese all’economia reale, in alcuni casi distruggendo posti di lavoro, in altri casi congelandoli attraverso la messa in cassa integrazione di operai e impiegati. Ma quali furono i gruppi sociali maggiormente colpiti? I cittadini del Mezzogiorno o quelli del Nord? I lavoratori dipendenti o quelli indipendenti? Gli stranieri o gli italiani?
Qui i dati riservano diverse sorprese. Secondo la serie storica dell’Isae le famiglie in difficoltà, quelle che «non arrivano a fine mese», sono da sempre più numerose al Sud che nel Nord, ma durante la crisi sono aumentate più al Nord che al Sud, con conseguente riduzione del divario. La crisi sembra dunque aver ridotto le diseguaglianze territoriali, probabilmente anche grazie alla social card, il cui meccanismo di accesso non tiene conto del costo della vita, molto minore nelle regioni meridionali: e infatti il Sud, con il 45% dei poveri, ha ottenuto il 70% delle social card.
Ancora più sorprendenti i dati dell’occupazione. In due anni, ossia fra l’estate del 2007 e quella del 2009, l’occupazione totale è diminuita di 407 mila unità, ma le vittime di questo calo non sono stati i gruppi sociali considerati più deboli, bensì quelli più forti.Per operai e impiegati i nuovi posti di lavoro hanno sostanzialmente eguagliato i posti di lavoro perduti (il saldo è negativo per sole 5 mila unità).
Per i lavoratori indipendenti, invece, le chiusure di attività hanno largamente superato le aperture, con un saldo negativo di 402 mila unità. Una parte di queste chiusure è costituita da contratti di lavoro parasubordinato non rinnovati, ma la parte preponderante è dovuta alle difficoltà finanziarie delle partite Iva, strangolate dalle restrizioni creditizie e dai ritardi nei pagamenti, a partire da quelli della Pubblica amministrazione.
Quanto alla nazionalità dei lavoratori coinvolti nella crisi, i dati Istat ci riservano l’ultima sorpresa: gli oltre 400 mila posti di lavoro perduti sono il saldo fra un crollo per gli italiani (quasi 800 mila posti di lavoro in meno) e un sensibile aumento per gli stranieri regolari (quasi 400 mila posti di lavoro in più). Insomma, comunque lo si rigiri, il prisma della crisi mostra invariabilmente la debolezza dei gruppi sociali forti: i ricchi possessori di attività finanziarie, il Nord, le partite Iva, gli italiani se la sono cavata peggio dei piccoli risparmiatori, del Sud, dei lavoratori dipendenti, degli stranieri. A due anni della crisi siamo mediamente più poveri, ma c’è meno disuguaglianza. Un esito che contrasta con la retorica della crisi («la crisi colpisce soprattutto i deboli»), ma non con ciò che si sa del funzionamento dei sistemi sociali di mercato, in cui è del tutto normale che la crescita amplifichi gli squilibri e la crisi li attenui.
Quello che invece non è scontato, e merita forse una riflessione, è la divaricazione fra i destini degli italiani e quelli degli stranieri. Perché la crisi colpisce di più gli italiani?
Le ragioni possono essere tante, ma quella di fondo mi sembra questa: il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano. E tuttavia, attenzione, questo non avviene perché gli italiani siano troppo istruiti bensì, semmai, per la ragione opposta. La nostra forza lavoro ha un livello medio di preparazione bassissimo: abbiamo la metà dei laureati rispetto agli altri Paesi sviluppati, e i nostri studenti medi fanno una pessima figura nei confronti internazionali (vedi i risultati dei test Pisa). Se i nuovi posti di lavoro creati fossero davvero di qualità, probabilmente mancherebbero tecnici, ingegneri, bravi insegnanti, e così via. E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri. Non per la ragione che molti immaginano, però, ossia a causa della bassa qualificazione degli stranieri. Il livello di istruzione degli stranieri è analogo a quello degli italiani (10,2 anni di studio contro 10,9). La differenza è che «loro» vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui l’importante era avere un lavoro, non importa quanto adeguato alla nostra immagine di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto.
In questo senso gli stranieri, con i loro 400 mila nuovi posti di lavoro conquistati nel bel mezzo della crisi, ci stanno impartendo una meritata lezione. Una lezione su cui, a conclusione di questo drammatico 2009, varrebbe forse la pena riflettere. (la Stampa)
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