Siamo in pieno tormentone su «Mangano eroe». Vittorio Mangano è un mafioso pluriomicida, morto da un decennio, che negli anni ’70 - prima di farsi assassino - fu stalliere ad Arcore. A dargli dell’eroe, a più riprese, è stato Marcello Dell’Utri per suoi personalissimi motivi. Ogni volta che lo dice si scatena la corsa per prendere le distanze dal recidivo senatore. È diventato un gioco di società. Se vuoi il lasciapassare tra le élite democraticamente corrette devi dire scandalizzato che no, Mangano non è un eroe, ma un mafioso assassino che merita la damnatio memoriae. L’ultimo che si è piegato al rito popolare è stato Gianfranco Fini alla commemorazione palermitana di Paolo Borsellino nel diciottesimo anniversario della strage. In sostanza, «Mangano eroe» è una cartina di tornasole. Se neghi a gran voce l’eroismo come Fini, sei promosso e applaudito. Se invece taci o azzardi un «ma», sei fuori dal consorzio umano.
Quello che colpisce in questa semplificazione è che tanti fingono di non capire quello che Dell’Utri ha veramente voluto dire. Si tappano le orecchie e ottundono i cervelli per accreditarsi antimafiosi a 24 carati e ostracizzare il senatore. Eppure la cosa è semplicissima. Dell’Utri è grato al mafioso, e ci tiene donchisciottescamente a farlo sapere, per la lealtà che ha dimostrato nei suoi confronti. Già condannato all’ergastolo e roso da un cancro terminale, Mangano ha rifiutato di dire ai magistrati, che glielo chiedevano con insistenza, la magica parolina secondo cui Dell’Utri e, per li rami, il Cav, fossero due coppole. Se ne avesse fatto i nomi, Mangano sarebbe tornato a casa per morire nel suo letto risparmiandosi le sofferenze della malattia in cella. Invece, pur di non mentire, non è sceso a patti ed è morto male. In questo atteggiamento, il senatore ha visto dell’eroismo. Si può discutere la parola, ma non negare l’abnegazione e, nella circostanza, il senso di verità dell’ex stalliere. Tra i Pm che volevano fargli dire il falso profittando della malattia e il rifiuto di Mangano a cedere, il meno prossimo all’inferno è lui.
Chiariamo. Dell’Utri non considera il defunto un eroe in generale ma - come ha precisato - «il mio eroe». Non ne ha lodato la carriera criminale, i furti, le estorsioni, gli omicidi. Ha solo reso omaggio al gesto estremo, il migliore di una vita sciagurata, in cui - una volta tanto - il mafioso ha preferito non danneggiare altri piuttosto che incassare per sé un vantaggio.
Da parte del senatore un atto di liberale umanità. Sapere riconoscere alcune virtù anche in chi è pessimo, è prova di intelligenza laica. Solo una mentalità medievale vede nel peccatore il male assoluto a prescindere. La realtà è diversa. Tra i filibustieri c’è chi è perfido sempre e chi ha lampi di riscatto. Differenziare è prova di razionalità. Se Mangano, al complesso dei suoi delitti, avesse aggiunto la menzogna su Dell’Utri e Berlusconi, sarebbe stato peggiore di quanto era già stato. Perché non dirlo anche a costo di una forzatura semantica in favore di un delinquente incallito?
L’appellativo di eroe si riserva in genere agli uomini nobili, ai coraggiosi, ai cavalieri senza macchia. Talvolta però, presi dall’enfasi, i politici si allargano. Di recente, il vetero comunista Nichi Vendola ha anche lui assunto nell’empireo degli eroi, Carlo Giuliani, il ragazzo del G8 di Genova che, prima di essere ucciso, scaraventò una bombola di estintore sulla testa di un carabiniere. E che dire dell’eroicizzazione e dello spreco di elogi per Adriano Sofri, definitivamente condannato per l’omicidio Calabresi? Se la sinistra trova dei motivi per innalzare le figure complessive di questi scialbi campioni, perché fa fuoco e fiamme se Dell’Utri esalta il gesto di lealtà - e quello solo - del mafioso in punto di morte? Per il solito e logoro motivo: ciò che ritiene legittimo per sé diventa un abominio se è fatto da altri.
La tecnica ex comunista è sempre la stessa. Demonizzare quello che, di volta in volta, è il suo nemico. Adesso sono la mafia e i berlusconiani. Due mondi distantissimi ma che, grazie ai polveroni alzati e mai diradati dalle toghe, sono stati accomunati. La frase di Dell’Utri, volutamente equivocata, è presa a pretesto per «mascariare» il senatore, il Cav e la sua cerchia. Con un triplice effetto: annichilire l’avversario, accreditarsi come puri, far passare chi non si allinea - perfino nel linguaggio - per mammasantissima.
La complicità dei finiani non stupisce. Mettersi nel solco della sinistra è un’assicurazione sulla vita. Nelle piazze, nei tribunali, con la stampa. È comunque singolare che uomini che hanno sofferto sulla propria pelle l’ottusità dell’ostracismo usino oggi gli stessi sistemi. Ci fu un tempo in cui essere fascisti, neofascisti o solo neutrali non dava scampo. I missini erano subumani e - si diceva - «uccidere un fascista non è reato». Ai saloini - i ragazzi di Salò - non si riconoscevano né ragioni, né ideali. Erano irredimibili e, alla stregua di Mangano, rinchiusi per sempre nel girone infernale. Inconcepibile che un missino avesse un’anima, un sussulto, un lato decente. Era fascista e basta. Come un mafioso è un mostro, a meno che non collabori, un missino si salvava solo con l’abiura e il rinnegamento di sé. A nulla valeva che fosse galantuomo, generoso, rispettoso delle leggi. L’etichetta prevaleva su tutto. O sei antifascista dichiarato o sei fascista. E per essere antifascista non potevi neanche essere liberale o dc. Dovevi per forza stare a sinistra.
La novità è che ora, in tema di mafia, i finiani fanno agli altri quello che fu fatto a loro. O te la prendi con Dell’Utri e urli che Mangano non è un eroe o sei reietto. L’esempio è Fabio Granata. Più zelante di Di Pietro, il noto immobiliarista, l’ex rautiano si è trasformato in buttafuori nella cerimonia per Paolo Borsellino, stilando un elenco di indesiderati. «Sarebbe bello - ha detto - non dovere scorgere qualche presenza stonata: ...chi ha appassionatamente solidarizzato con condannati per mafia (chi di grazia?, ndr), esaltatori di mafiosi eroici (Dell’Utri, ndr), ecc... Tutti questi hanno perduto per sempre il diritto di parola». Fantastico. A Granata per decenni hanno messo la mordacchia perché fascista. Ora, che con Fini è entrato nel salotto buono, la mette lui. Come dire: la voglia di menare il manganello è dura a morire. (il Giornale)
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1 commento:
necessita di verificare:)
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