Se i giovani fossero più attenti e meno viziati, le loro famiglie avessero patrimoni meno ricchi e minor possibilità di finanziarne i capricci, i genitori non fossero dei nonni impegnati nella gara a chi riesce a darla più spessa vinta, se la prospettiva di un lavoro non fosse collocata nel remoto futuro in cui ci si dovrà guadagnare la pagnotta (che dico? il sushi), le nostre piazze sarebbero già piene di gente in rivolta, che si rifiuta d’accettare il furto del proprio futuro. E non sarebbe un male, perché la consapevolezza, anche se dolorosa, è sempre meglio dell’incoscienza. Il guaio è che siamo tutti impegnati a consumare e trastullarci, dando le colpe di quel che non va a entità inafferrabili: il sistema, la società, la politica.
A questo quadro di ridanciana cecità si deve aggiungere un particolare rilevante: ciascuno si occupa degli affari propri, stando bene attento a non confonderli con gli interessi collettivi. Quando i precari della scuola o della sanità protestano si sentono solo loro, facendo accorre la scomposta pattuglia dei politici pronti a blandirli, mentre spariscono gli interessi antagonisti, quelli degli studenti e dei malati. Quando i lavoratori occupati chiedono maggiori garanzie si sente solo la voce dei loro sindacati, che neanche li rappresentano, e si scorge la gara politica a patrocinarli, ma tacciono gli interessi dei non garantiti, di quelli che dal mercato del lavoro sono esclusi. E così via, in un trionfo d’egoismo che campa alla giornata.
I nuovi dati Istat sulla disoccupazione segnalano un incremento all’8,5% nel secondo trimestre 2010 (più 1,1 rispetto al primo e più 13,8 su base annua), mentre i maschi al lavoro, fra i 15 e i 64 anni, sono scesi al 68% (meno 1,1 su base annua) e le donne sono il 46,5%. Dati impressionanti non in sé, ma per il fatto d’essere stati abbondantemente previsti, generati da guasti che continuamente denunciamo nel più totale disinteresse. Allora provo a dirlo in modo diverso: la contabilità dei parlamentari che hanno votato a favore dell’onorevole Nicola Cosentino è avvincente, le scommesse su ciò cui preludono scontate, la ricerca della reale proprietà dell’appartamento monegasco e ipocritamente scontata, il desiderio di Walter Veltroni di non andare alla conta nello scontro con Pier Luigi Bersani davvero intrigante, ma tutto questo sarà travolto dalla rivolta (mentre lo è già dal ridicolo) nel momento in cui sarà chiaro che, finito di mangiarci risparmi e patrimonio, si dovrà diminuire il tenore di vita. Non è affatto una sorte inevitabile, anzi, sono convinto che sia ribaltabile, ma a condizione di riacquisire consapevolezza di quel che accade e di non perdere tempo occupandoci del nulla.
La disoccupazione cresce, in Italia, ma resta pur sempre sotto la media europea. Questo non è un miracolo, e neanche un merito, ma il semplice derivato del non contabilizzare fra i disoccupati tutti quelli che già hanno perso il lavoro, ma ricevono la cassa integrazione. Che noi non chiamiamo sussidio di disoccupazione, quindi è un attributo degli occupati. Nel frattempo, però, la popolazione attiva, ovvero che lavora o cerca lavoro, è in diminuzione, essendo già ai livelli più bassi rispetto ai concorrenti europei. Per non parlare dell’universo femminile, dove decenni d’emancipazione e annate di “Sex and the City” ci restituiscono un’apparente assuefazione ai lavori casalinghi. In realtà si tratta di anacronistici e dannosi ostacoli all’ingresso nel mondo del lavoro. La disoccupazione giovanile sfiora il 28%, ma calcolata su un universo ancora ristretto, detraendo quelli che, non sapendo cosa altro fare, conciliano l’iscrizione all’università con l’impegno nell’happy hour. Non ci si meravigli se alla laurea arrivano in pochi, tanto serve ad ancor meno, piuttosto s’impari a far di conto e ci si renda conto che quella disoccupazione è, in realtà, ancora più alta.
Tutto questo non porta a esplosioni di protesta per tre ragioni: a. perché i nuclei familiari sono ancora finanziati da trasferimenti pubblici, il che favorisce la connivenza fra cattiva politica e cattiva cittadinanza; b. perché i patrimoni familiari sono ancora consistenti e non fiscalmente ingestibili; c. perché l’economia irregolare, specie al sud, ha un’elasticità ben più alta di quella fiscalizzata e gestita nel rispetto delle leggi. Ma sono tre armi a doppio taglio, anzi: tre pugnali impugnati dalla parte della lama. Perché: 1. i trasferimenti pubblici tengono alta la pressione fiscale, penalizzando il lavoro produttivo e favorendo la rendita improduttiva; 2. i patrimoni dovranno trasformarsi in liquidità nella condizione meno favorevole, diffondendo la sgradevole sensazione d’impoverimento; 3. l’economia irregolare non è solo sommerso ed evasione fiscale, ma anche criminalità che contagia l’amministrazione pubblica.
Basta guardare il panorama per preoccuparsi, senza lasciarsi ingannare dalla calma apparente. Ma nessuno si sforza di guardare l’insieme e ciascuno si concentra sulla propria condizione. Cittadini e rappresentanza politica, alla fine, si somigliano fin troppo, riflettendosi in uno specchio che rende tutto immobile. C’è chi tira a campare e chi tira a durare, percependo la propria posizione come un privilegio da non mollare. Collettivamente senza ambizioni, incuranti delle ingiustizie profonde che vengono generate. I dati appena ricordati si vedono già, nello specchio, disegnano un contorno preoccupante, aggravato dalla continua perdita di produttività. Ma lo specchio ancora riflette, sicché ciascuno si delizia nel rimirare sé medesimo.
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