Adesso va’ a spiegare alla gente che buona parte del gigantesco casino in cui si trova la politica italiana dipende dalle decisioni della Corte costituzionale. Fin dal 1994 Silvio Berlusconi è stato un presidente del Consiglio che ha corso con una gamba sola. L’altra gli è stata legata dalla magistratura. Dal 1994 a oggi contro il suo gruppo sono stati aperti 66 procedimenti penali rilevanti, di cui 22 contro il Cavaliere che prima di scendere in campo non aveva avuto nemmeno un avviso di garanzia (da 19 è stato assolto, archiviato o prescritto; tre processi sono ancora pendenti). A parte i suoi alleati più stretti, sia Gianfranco Fini sia Pier Ferdinando Casini hanno riconosciuto anche negli ultimi giorni che Berlusconi è sottoposto a un inconsueto «accanimento giudiziario». A molti «processi ad personam» il governo ha perciò risposto con alcune «leggi ad personam». Ma il costo politico di questa protezione è stato altissimo.
Se negli ultimi sette anni di governo Berlusconi non ha fatto che qualche piccolissimo passo, per esempio, nella grande e organica riforma della magistratura, è perché alcuni alleati pro tempore hanno arricciato il naso e anche perché persone bene informate e regolarmente smentite gli avevano promesso giudizi favorevoli di questa o quella corte se lui si fosse comportato in un certo modo. E veniamo alla Corte costituzionale. Una persona della sinistra moderata e di grande buonsenso come Antonio Maccanico aveva capito fin dal 2002 che senza uno scudo permanente il governo non avrebbe potuto operare serenamente. Il 12 settembre di quell’anno, mentre alla Camera maggioranza e opposizione s’azzannavano sulla legge Cirami sul «legittimo sospetto», Maccanico propose una legge ordinaria che garantisse l’immunità durante il loro mandato alle cinque più alte cariche dello Stato. Berlusconi la rispolverò nel gennaio 2003. La norma, rielaborata dal capogruppo dei senatori di Forza Italia Renato Schifani, fu approvata il 18 giugno successivo. Prima dell’approvazione furono compiute due ricognizioni con esito positivo. La prima dal presidente del Senato Marcello Pera presso alcuni giudici costituzionali, la seconda addirittura dal capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, che prima di firmarla chiese il parere di costituzionalità a quattro presidenti emeriti della Corte: Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, Francesco Paolo Casavola e Leopoldo Elia. Soltanto Elia espresse parere contrario e Ciampi firmò. Ma il 13 gennaio 2004 la Corte bocciava la legge con 10 voti contro 5 per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sui pari diritti dei cittadini dinanzi alla legge. Nella motivazione non si faceva cenno all’articolo 138, che prevede la revisione della Carta con due passaggi alla Camera e due al Senato. Perciò, con il nuovo governo Berlusconi, nel 2008 il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha riproposto il lodo correggendo soltanto le violazioni dell’articolo 3. E lo ha fatto, ovviamente, dopo infinite consultazioni e anzitutto, com’è ovvio, con il Quirinale. Risultato: il 7 ottobre dell’anno scorso, dopo una furibonda campagna mediatica contro il lodo, la Corte lo bocciò con 9 voti contro 6. E proprio per violazione dell’articolo 138.
Ora, non si capisce perché il governo abbia perso sei mesi aspettando la fine di aprile per partire con un terzo lodo, stavolta «costituzionale». Si capisce invece perfettamente perché Berlusconi continui a essere sotto schiaffo dei suoi alleati. Si dà infatti per scontato che la Corte, che non ha mai preso una decisione importante in favore del Cavaliere, il 14 dicembre boccerà il «legittimo impedimento», un’altra norma scudetto, se non scudo, approvata al posto dell’aborrito «processo breve». E allora via di corsa ad approvarne una nuova versione nella speranza che la Corte rinvii, come d’uso nel galateo istituzionale, la decisione del 14. O si preferirà la prima lettura del nuovo lodo? Intanto Berlusconi continua a essere sotto schiaffo e a dovere subire i ricatti di chi, in cambio del voto salvavita, può chiedergli qualsiasi cosa. (Panorama)
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