Un venerdì pomeriggio di due anni fa, John Thain, l’amministratore delegato della Merrill Lynch era nel suo ufficio che sbrigava le ultime pratiche prima del weekend quando squillò il telefono. In linea c’era un funzionario del governo statunitense con un messaggio conciso ma chiaro: «Si faccia trovare al quartier generale della Federal Reserve di New York tra un’ora». Thain è un veterano di Goldman Sachs, è stato persino capo della Borsa di New York e non è facilmente impressionabile. Ma quel giorno, capì subito la gravità della situazione: i signori della finanza si dovevano riunire d’urgenza nella sede della Banca Centrale perché la Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari del mondo, era in fin di vita.
«Di telefonate del genere ne ho ricevute pochissime nel corso dei miei trent’anni a Wall Street - mi raccontò dopo -. E non hanno mai portato buone notizie». Thain aveva ragione. Nel breve spazio di un weekend d’autunno, il settore finanziario e l’economia mondiale furono colpiti da un terremoto da cui devono ancora riprendersi. I miliardi di fondi spesi dai governi per stimolare la crescita, i nuovi limiti sul capitale delle banche stabiliti questa settimana a Basilea, e, soprattutto, l’odio viscerale della gente comune per i nababbi della finanza, sono tutti figli di quei due giorni che cambiarono il mondo.
Quando Thain e gli altri titani di Wall Street uscirono dal palazzo-bunker della Fed quella domenica sera, la Lehman era morta, uccisa da perdite esorbitanti sul mercato immobiliare e consegnata alla storia come la più grande bancarotta di sempre. Aig – il gigante delle assicurazioni – dovette essere salvato dai contribuenti americani con 180 miliardi di dollari. E perfino Goldman, Morgan Stanley e Citigroup furono costrette a prendere soldi dal governo Usa per rimanere a galla. (Anche Merrill scomparsa, comprata dalla Bank of America, che licenziò Thain dopo pochi mesi).
Ma il tonfo di Lehman echeggiò ben oltre i grattacieli di New York. Lo choc nei mercati provocò un blocco quasi totale del commercio internazionale, con investitori ed aziende paralizzati dalla paura di perdere soldi. Mi ricordo bene il panico nella voce di un vecchio amico che mi chiamò da Hong Kong, uno dei porti-chiave per il transito di merci tra continenti, il lunedì dopo il weekend di Lehman. Disse semplicemente: «Le navi-container sono ferme. Non capisco. Sono... ferme».
A ventiquattro mesi di distanza, le navi sono salpate e i mercati hanno superato le paure del dopo-Lehman. Parlamenti e banche centrali stanno cambiando le regole del gioco per impedire alle banche di trasformare ancora una volta l’economia mondiale in una roulette russa i cui proiettili vanno a colpire i posti di lavoro e il tenore di vita degli innocenti. E Wall Street e la City di Londra stanno svecchiando le loro classi dirigenti, nella speranza che una nuova generazione introduca valori e comportamenti meno venali e più morali di quella precedente.
La crisi come atto catartico – un male doloroso ma necessario per purificare un settore finanziario vittima dei suoi successi ed eccessi. E’ un’idea allettante, come i discorsi melliflui di politici e banchieri che ci dicono che ora va tutto bene, che le esplosioni del 2007-2009 non accadranno mai più grazie al nuovo sistema finanziario che stanno progettando.La realtà, purtroppo, è più complessa. L’attivismo politico del dopo-crisi ha fatto del bene, su questo non c’è dubbio. Costringere le banche a mettere fine ad operazione rischiose e fini a se stesse – come la compra-vendita di titoli con i propri soldi che è stata messa fuori legge negli Usa – e mantenere alti livelli di capitale - come da accordo di Basilea - sono senz’altro sviluppi positivi. Il problema è che gran parte delle riforme introdotte sia nel vecchio che nel nuovo continente curano i sintomi, non le cause, del male.
Quando gli Stati Uniti si trovarono in una situazione simile negli Anni 1930, il governo prese misure drastiche, passando la famosa legge «Glass-Steagall» che separò le banche d’affari dalle casse di risparmio. L’erezione di quel muro tra investitori e risparmiatori fece sì che Wall Street non avesse accesso ai soldi di Main Street e non fosse quindi in grado di utilizzarli (e sperperarli) in attività ad alto rischio.
Nel mezzo secolo seguente – fin quando le banche convinsero il Congresso ad abolire la «Glass-Steagall» - la speculazione e il desiderio di fare soldi rimasero le raisons d’être dei professionisti del mercato, ma senza mettere a repentaglio il benessere dell’americano medio. La recente ondata di nuove regole non comporterà nessun cambiamento fondamentale né nella struttura delle istituzioni finanziarie né nei comportamenti dei loro capi e questo è molto preoccupante. Il ripristino di una separazione netta alla «Glass-Steagall» è forse impossibile vista la complessità delle banche moderne. Ma governi e regolatori avrebbero potuto fare di più. Molto di più.
Un paio di esempi. Se, come sembra, una delle cause della crisi è stato il fatto che il pagamento annuale dei bonus ha creato una mentalità a breve termine tra i banchieri, si sarebbe potuto obbligare le aziende a pagare gli alti dirigenti in azioni che possono essere vendute solo quando vanno in pensione. E perché non decidere che le banche non possono prestare i depositi dei piccoli risparmiatori a hedge funds e altri operatori di mercato? La verità è che, nonostante l’antipatia dei cittadini per la classe finanziaria, le banche sono riuscite a persuadere i politici che misure più radicali le avrebbero danneggiate e messo a rischio la ripresa economica. E visto che i governanti sono anch’essi vittime di una mentalità a breve-termine (la prossima elezione, la prossima intervista ecc, ecc), le lamentele dei banchieri hanno trovato terreno fertile. Vikram Pandit, che, come capo della Citigroup, è un esperto in materia di disastri, mi ha detto di recente: «A crisis is a terrible thing to waste» – Sprecare una crisi è terribile. Lui parlava di altro, ma quella frase dovrebbe essere inscritta su tutti gli edifici governativi di New York, Washington, Basilea e Bruxelles. (la Stampa)
*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York.
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