Tutti ricordiamo le geremiadi dei “pacifisti” al tempo della guerra in Iraq prima e della missione italiana poi: l’idea di esportare la democrazia è una forma di colonialismo, il tentativo di imporre un nostro modello di organizzazione sociale a paesi che non sono interessati né preparati ad adottarlo. Solo l’ingenua dabbenaggine di un guerrafondaio texano può far credere che con la brutalità della guerra si possa trasformare l’Iraq in una democrazia di tipo occidentale. E così via blaterando.
Poca o nulla attenzione fu prestata al fatto che prima gli afghani poi gli iracheni al rischio della vita, si fossero recati in massa a votare, per la prima volta nella loro storia. Il settimanale inglese The Economist alla vigilia delle elezioni irachene ne previde l’inevitabile fallimento, perché il segno sulle dita era fatto di un inchiostro che sarebbe rimasto per giorni, consentendo l’identificazione di quanti erano andati a votare ed esponendoli alla violenza dei terroristi. La profezia fu clamorosamente smentita.
Sostenni allora che i “pacifisti” avevano torto: la democrazia non è per nulla uno dei tanti sistemi politici, è un’aspirazione universale. Ovunque ne abbiano la possibilità le persone desiderano esprimere in qualche modo il proprio parere sul governo del loro paese. Finora l’unico metodo che possa garantire quanto tutti vogliono è il voto in libere elezioni, che solo la democrazia consente.
Quanto accaduto in Tunisia, Egitto, Algeria, Yemen, Bahrein e ora in Libia è la prova indiscutibile che anche in nord-Africa, anche nel mondo arabo, gli esseri umani preferiscono decidere del proprio futuro anziché affidarlo a un dittatore, non importa se selvaggio e sanguinario o se bonario e tollerante. Almeno negli slogan delle piazze la libertà e la democrazia sono le richieste dei dimostranti. Purtroppo, non sempre le piazze ottengono quanto desiderano: i francesi volevano la libertà e l’eguaglianza e ottennero il Terrore; i russi volevano liberarsi dell’autocrazia degli zar e si beccarono Stalin, ed è possibile che le richieste di libertà e democrazia finiscano col condurre alla teocrazia: è quanto successo in Iran, dove la cacciata dello Scià è costata l’avvento al potere degli islamisti più sanguinari e retrogradi del pianeta.
Bush aveva ragione: la democrazia è aspirazione universale ed è anche contagiosa, perché tende a estendersi agli stati vicini. Sarebbe difficile negare che i fatti che in Tunisia hanno condotto alla cacciata di Ben Ali non abbiano avuto un importante ruolo ai successivi eventi in Algeria, Egitto e altrove. Era anche per questa ragione che Bush faceva riferimento al medio oriente allargato, era consapevole che la democrazia in uno dei paesi avrebbe potuto incoraggiare altri a imitarlo.
E’ impossibile dire quale sarà l’esito dei sommovimenti storici che scuotono il nord-Africa e non solo, ma a me sembra che almeno una cosa sia chiara: i soloni che ironizzavano sulla tesi di George W. Bush non appaiono particolarmente intelligenti alla luce di quanto sta accadendo. Altrettanto chiaro mi sembra che gli “Obamaniaci”, gli entusiastici adoratori dell’attuale presidente americano farebbero bene a chiedersi se sia stata saggia la scelta del loro idolo di cercare a tutti i costi rapporti con i nemici dell’America, arrivando persino a tollerare la sistematica violazione dei diritti umani. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha ripetutamente sostenuto che “l’America non presume di sapere cosa sia meglio per tutti”; una tesi che equivale a una dichiarazione di neutralità fra libertà e servitù, democrazia e dittatura, rispetto dei diritti e delle libertà personali e loro violazione, e che non importa molto a chi ha già la fortuna di vivere in un Paese libero e democratico ma che può fare la differenza altrove. Infine, come se non bastasse, l’essersi affrettato a mollare Mubarak ha insegnato a tutti quanto valga l’alleanza con gli Stati Uniti.
Mi auguro, come credo tutte le persone sensate, che gli eventi odierni preludano a una diffusione della democrazia e dei suoi valori di libertà, tolleranza e separazione fra religione e politica, ed è possibile che, almeno in alcuni paesi, il nostro augurio venga soddisfatto. Comunque vada, tuttavia, il cambiamento per noi più urgente è quello del presidente americano; finché l’attuale deciderà la politica estera degli Stati Uniti, il mondo non sarà al sicuro. (il blog di Antonio Martino)
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