Le cancellerie democratiche e occidentali annaspano nella crisi egiziana e gli Stati Uniti vi si giocano il loro ruolo globale. Ancora non è stata detta la cosa decisiva: non è accettabile alcun indebolimento della già precaria sicurezza d’Israele. Meglio essere ruvidi e diretti, segnalando che un ritorno dell’Egitto al nazionalismo nasseriano, per non dire del progressivo scivolamento verso il fondamentalismo islamico, sarebbe una tragedia. Per la pace nel mondo e per i nostri interessi.
I nostri mezzi d’informazione s’innamorano subito delle piazze, del popolo in rivolta. Le piazze egiziane non sono colmate dai Fratelli Mussulmani, ma neanche quelle iraniane erano riempite dai seguaci del fondamentalismo. L’Egitto non è l’Iran, ma ci si ricordi che il primo governo succeduto alla rivoluzione era moderato ed equilibrato, nonché lestamente liquidato. Quello dello Scià era un regime, certamente, anche sanguinario, ma mollarlo fu, per gli Stati Uniti e per l’occidente, un errore. Fu il popolo a volerlo? Sta di fatto che oggi ci tocca solidarizzare con quello stesso popolo, contro il suo governo dispotico, medioevale e guerrafondaio. Attacchiamo le foto di una donna che rischia la lapidazione, decorando i palazzi governativi d’Europa, nel mentre altri vengono impiccati e sgozzati, nel silenzio. Quello di Hosni Mubarak è un regime, certo, ma è anche il sistema politico che ha allentato la presa sulla libertà politica, consentendo ai fondamentalisti di candidarsi e raccogliere voti assieme all’opposizione, e sulla libertà economica. Mubarak, del resto, giunse al potere perché il predecessore, Anwar al-Sadat, fu ucciso dai nemici della pace con Israele. Se si perde la sicurezza della posizione egiziana, in quanto a diritto all’esistenza d’Israele, il medio oriente esplode. Probabilmente è vero, non sono i Fratelli Mussulmani ad avere innescato la rivolta, ma possono essere loro a giovarsene.
George W. Bush ha lasciato una situazione nella quale la Siria doveva seriamente considerare l’ipotesi di trovare un accordo con l’occidente (in tal senso Bashar al-Asad è stato ricevuto anche in Italia, erede di una dittatura terrorista) e in Iran potevano immaginare di vincere i moderati che dissentono dalla linea aggressiva di Mahmud Ahmadinejad. Barak Obama ha da tempo esaurito il tempo del collaudo, se perde ruolo in quest’area porta a casa una sconfitta storica, destinata a pesare sul futuro del mondo. Senza contare che priva di un Egitto sicuro alle spalle l’Autorità Nazionale Palestinese tornerà ad essere occupata dagli estremisti di Hamas, rendendo non solo vana qualsiasi ipotesi di pace, ma aprendo la possibilità all’immediato ritorno alle armi. L’attentato al gasdotto del Sinai, del resto, è solo un assaggio.
Non metto in dubbio che fra chi protesta, oggi, ci siano molti egiziani desiderosi di maggiore ricchezza e libertà, ma non sarebbe la prima volta che la piazza propizia un risultato esattamente opposto. Il regime di Mubarak (esponente dell’Internazionale socialista, per chi avesse la memoria guasta) non ha futuro, ma il punto è: con chi negozia la transizione? Con le democrazie occidentali, garanti dell’equilibrio complessivo, o con i Fratelli Mussulmani, garanti di un diverso equilibrio interno? La Casa Bianca sembra a corto d’idee e desiderosa di risparmiare risorse, mentre l’Europa, ancora una volta, è assente. Posta la debolezza istituzionale del continente più ricco e con la storia più antica, siano i governi nazionali che contano (Francia, Germania, Inghilterra, con l’Italia che è stata capace di una posizione netta e giusta) a porsi il problema. La politica estera è un terreno ove le forze si confrontano e scontrano senza condividere comuni finalità, è, al tempo stesso, l’arena dei grandi principi e degli interessi concreti. Per questo è bene non perdere di vista la disciplina più utile: la storia.
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