La disputa sulle correnti e il correntismo, male oscuro venuto a minare il futuro del Pd prima ancora della sua nascita, si sta svolgendo in modo un po' astratto: inutile, se non controproducente, per un partito che deve ancora esordire, e che vuol nascere in modo nuovo, chiamando i cittadini a partecipare direttamente alla fondazione e a eleggere il leader nelle primarie. L'eccezione - non l'unica, né la più esplicita, solo la più recente - riguarda Massimo D'Alema, che, nella prima intervista a Repubblica dopo le vacanze, ha detto chiaramente che il partito che si va a costruire è fatto per contenere una pluralità di posizioni e sarà diverso in tutto e per tutto dal vecchio Pci monocratico e accentratore. Di qui una certa tensione nel dibattito interno e l'avvento di più candidature per la segreteria, che non devono stupire, anzi fanno parte del gioco.
Ciò che D'Alema non dice, ma altri dirigenti Ds e Dl hanno detto prima dell'inizio della corsa congressuale, è che il modello scelto per il nuovo partito è quello della Dc. Depurato, certo, di tutte le degenerazioni che portarono il vecchio partitone cattolico e centrista a pagare il prezzo più alto di Tangentopoli e della caduta della Prima Repubblica.
Ma, al tempo stesso, ritrovato come esempio di convivenza possibile tra linee e ispirazioni diverse, anche contrastanti, e come strumento per vincere le elezioni, andare al governo e possibilmente restarci. Che ci fosse stato qualcosa di sbrigativo, retorico, esagerato, nella cancellazione di un pezzo importante di storia italiana come quella della Democrazia cristiana, è ormai un fatto acclarato e oggetto di revisione storica. Ma potrebbe rivelarsi azzardato, oggi, restaurare il modello Dc, senza metterne in conto le conseguenze, e soprattutto senza valutare a fondo se sia in grado di stare al passo coi tempi.
Il modello di cui si parla infatti funzionò benissimo fino agli Anni 70 e all'inizio della lunga crisi democristiana, e consentì al partito cattolico di sopravvivere vent'anni più del dovuto. Era basato su un semplice meccanismo: all'interno della Dc, le minoranze contavano come e più delle maggioranze. Le correnti minoritarie, alleandosi tra loro e cercando sponde tra gli scontenti di quelle maggioritarie, riuscivano ogni anno a imporre un cambio di governo, e ogni due o tre un cambio di segreteria. Il vincitore annunciato, e scelto quasi sempre prima della celebrazione del congresso, sapeva di essere lo sconfitto designato della volta dopo. Tra gli sconfitti, invece, si preparava il prossimo segretario. In una storia di quasi mezzo secolo, le eccezioni (De Gasperi, Fanfani, Moro, De Mita) vennero quasi sempre a confermare la regola. Rivelandosi ininfluenti, più o meno, sulla stabilità dei governi e sul turn-over di ministri e sottosegretari, vero cemento, con la spartizione dei posti di sottogoverno, dell'altalenante unità interna e della buona, buonissima, o discreta, secondo i tempi, performance elettorale del partito.
Alla Dc, inoltre, la collocazione centrale, durata (fino a Craxi) per quaranta dei cinquant'anni, consentiva di dichiararsi sempre anticomunista e a favore di alleanze di centrosinistra moderate, ma di praticare in realtà, per dirla con Andreotti, la «politica dei due forni»: alleata al Governo con socialisti e laici, e in Parlamento con il Pci, a cui un'esosa finanza pubblica, della quale ancora si piangono le conseguenze, elargiva i fondi necessari al mantenimento delle regioni rosse, in cambio di un'opposizione morbida su gran parte del pubblico sperpero. Per molti anni, le leggi finanziarie (che non si chiamavano così) non erano quel parapiglia, quello scontro all'ultimo sangue, su tasse e tagli, che sono diventate oggi. L'illusione, funesta a guardarla con gli occhi di oggi, era che a spese dello Stato ce ne fosse per tutti. Era considerato un vanto, durante le trattative in commissione Bilancio o le votazioni finali, uscire dall'aula urlando, orgogliosi, «Abbiamo ottenuto tremila miliardi in più!», per questa o quella causa: ignorando, o fingendo di ignorare, che quel voto e quel compromesso sottobanco avrebbero accresciuto un debito pubblico già enorme, insopportabile e caricato sulle spalle delle successive generazioni.
Adesso che di nuove tasse è rimasta a parlare la sinistra radicale, mentre gli altri fanno i conti con costi e ambiguità delle cosiddette «politiche sociali», riflettere sull'epoca in cui i partiti (all'apparenza) andavano bene e il Paese male può servire, almeno, per non ripetere gli errori. Certo, tutti insieme, Veltroni segretario in pectore, i due avversari forti Bindi e Letta e il gruppo di outsider pronti a costituire una minoranza di blocco, fanno un perfetto quadro di vigilia democristiana. Toccherà a loro convincere gli elettori delle primarie che non sarà così.
Ma la domanda vera da farsi è se il modello post o neo Dc sia ancora adeguato a una moderna, e anomala finché si vuole, democrazia come quella italiana. A un sistema in cui la centralità non è più di nessuno, ma, giorno dopo giorno, di chi la occupa con slogan e strategie di marketing più efficaci. Al quotidiano confronto-scontro, da mattina a sera, nella miriade di interviste e talk-show televisivi. Alla competizione basata sulla faccia tosta, più che sulla proposta. E alla rincorsa a distinguersi, sempre, pur di avere l'ultima parola.
È in questo quadro che il Pd nascituro mostra già qualche affanno, ma tuttavia dovrà misurarsi. E se è sicuro che un partito nuovo, in cui posizioni diverse possano convivere, sia preferibile a una coalizione in cui le differenze devono necessariamente emergere, c'è forse un ultimo, ulteriore elemento su cui riflettere. Pur avendo avuto la possibilità di costruirlo a sua misura, Berlusconi - non va dimenticato - ha vinto ed è andato due volte al governo con un partito monocratico e accentrato di cui detiene il controllo assoluto ormai da quattordici anni. Così, paradossalmente, è riuscito a occupare gran parte dello spazio politico della vecchia Dc con un modello che funziona un po' come quello comunista (e in qualcosa gli somiglia). Proprio quel vecchio Pci, la cui ombra D'Alema vorrebbe cancellare una volta e per tutte.
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1 commento:
Chissà se il PDL assomiglierà al PNF invece
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