Sostenere che vi sia una deficienza culturale e professionale di alcuni insegnanti, riconducibile al loro essere meridionali, non è solo privo di senso, ma dimostrerebbe l’ignoranza circa la storia dell’istruzione pubblica, regia ancor prima che repubblicana, arricchitasi di scambi continui fra docenti provenienti dalle diverse aree del Paese. Si può, anzi, sostenere che siano stati la scuola ed il servizio militare obbligatorio ad aver fatto gli italiani, avendo poi provveduto la televisione a fare l’italiano, inteso come lingua. Al tempo stesso, però, occorre essere accecati dal pregiudizio per non vedere il micidiale dislivello culturale che la scuola produce, a tutto danno dei ragazzi meridionali e periferici. Ci sono dati, non smentibili, che lo dimostrano.
Non credo, però, che il problema siano (solo) i docenti. Altrimenti spiegatemi perché più si scende verso il tacco e la punta dello stivale, più si scassano anche la giustizia e la sanità. Non è bello, ma più si va verso sud più è lo Stato nel suo insieme a funzionare meno, giungendo, in alcune zone, anche a perdere sovranità territoriale. I corsi di recupero devono farli non (solo) gli insegnanti, ma legislatori e politici che si ostinano a non guardare in faccia la realtà.Le ragioni di questo disastro sono molteplici, troppe per parlarne in sintesi. La costante è lo sfilacciarsi del tessuto sociale, talché ogni attività pubblica serve a finanziare una famiglia od un gruppo, ma non a servire la conoscenza, la giustizia, la produzione o la salute. La via d’uscita non è la separazione dei mali e delle insufficienze, in un tripudio di federalismo divisorio anziché moltiplicativo, ma serve una rivoluzione meritocratica che dissolva incrostazioni intollerabili. Serve rendere individuabili le responsabilità, punendole, che siano in corsia, in aula od in tribunale. Serve rompere lo schema dei soldi e la carriera uguali per tutti, talché si conservino intatte le peggiori diseguaglianze. Non è una ricetta diversa da quella che serve anche al nord, ma più urgente e più intensa.
Lo Stato, al sud, fece miracoli negli anni cinquanta. Negarne l’odierno fallimento serve solo a prolungarlo, estendendolo inevitabilmente ad ogni angolo d’Italia. Lo Stato non può e non deve essere cancellato, per questo occorre riformarlo.
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