Le domande che nascono vedendo tanti figli di immigrati nelle nostre scuole sono tre: se la loro presenza rallenti lo svolgimento delle lezioni; se si possano iscrivere alle nostre scuole così come arrivano o se debbano prima imparare l'italiano; se possano iscriversi dove vogliono, e cioè alla scuola più vicina, o se sia meglio distribuirli per quote, in modo che non ci siano più classi che hanno il 20 o il 30 o perfino il 40 per cento di studenti d’origine straniera. A Torino c'è addirittura una classe in cui gli studenti sono tutti stranieri. Questi sono problemi, per così dire, normali: nel mondo scolastico non c’è più l’asprezza che c’era quando si discuteva se fosse opportuno che i figli degli islamici, nelle nostre medie superiori, formassero classi separate per non essere mischiati con i figli, e soprattutto le figlie, dei cristiani. In quest’ultimo caso le conseguenze erano disastrose: se si accoglieva quella richiesta, si permetteva che nella nostra repubblica si formassero nuclei di civiltà separata e ostile. Noi cerchiamo l’integrazione con chi arriva, non possiamo accettare che chi arriva cerchi la separazione da noi.
C’è a Mestre una scuola media che si chiama «Giulio Cesare», dove i genitori degli scolari italiani han deciso di boicottare la classe prima sezione G, perché ha un numero esorbitante di stranieri. Dunque sono i genitori ad accorgersi che i figli, nelle classi con tanti immigrati, non imparano niente. La settimana prossima l’assessore all’Istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, avrà un incontro su questi temi col ministro Gelmini. Speriamo che il ministro si convinca. Perché in ogni classe, dalle elementari alle medie superiori (l’università è un’altra cosa), l'insegnante regola l’avanzamento del programma sulla capacità di apprendimento dei più indietro. Se prima un argomento non è ben appreso dagli ultimi, l’insegnante non va avanti. Svolgere un programma è come costruire una casa: non puoi collocare i mattoni del primo piano se prima non hai piantato le fondamenta.
Questo comporta che, dov’è forte la presenza di stranieri, lo svolgimento del programma va a rilento. Non perché i bambini stranieri siano meno dotati: non si tratta di doti, ma di basi. Anzitutto, basi linguistiche, e cioè possesso dell’italiano. Nelle superiori, ci sono ragazzi dell’est-europeo che rendono moltissimo, i romeni specialmente, perché per loro è facile superare il gap linguistico, che è ridotto, e superato quello vanno di corsa, spinti dalla poderosa «vis a tergo» che è la condizione di immigrati.
I piccoli islamici, invece, sono bloccati dalla cattiva conoscenza dell’italiano, lingua per loro difficilissima. La lingua s’impara a scuola, tra gli amici e a casa. Se tra gli amici e a casa parla un’altra lingua, il ragazzo non imparerà mai bene l’italiano. Ci sono politici che rifiutano questo ragionamento, perché dicono che così si rallenta l’integrazione, in quanto si ritiene che quei bambini abbiano bisogno di una pre-scuola, da separati, prima della vera scuola, con i coetanei italiani. Come se quelli che arrivano da fuori fossero scolari di serie B.
Questi politici sbagliano: prevedere che i figli degli immigrati, prima d’iscriversi alle nostre scuole, imparino l’italiano, non vuol dire ostacolare l’integrazione, ma favorirla. Non c’è integrazione con una civiltà senza la conoscenza della lingua in cui quella civiltà si esprime. Alle elementari c’è il problema dell’età: arrivano a iscriversi bambini di 8, 9, 10 anni. Non è opportuno iscriverli alla classe che gli spetta per età, è meglio iscriverli alla classe che gli spetta in base alla loro conoscenza dell’italiano. Ci sono quartieri dove l’immigrazione è così intensa che nelle scuole si arriva al 30 % di scolari immigrati, e anche di più. Succede nelle periferie. Nei centri, gli scolari sono italiani al 95%, o nella totalità. E’ così che si formano scuole di serie A e scuole di serie B. Non è una buona cosa. Meglio distribuire per quote gli immigrati, e non si dica che questo vuol dire peggiorare tutte le scuole: la presenza di immigrati è anche un arricchimento culturale, basta saperlo cogliere. (la Stampa)
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