I miracoli esistono, come anche i miracolati. Uno di questi riguarda e beneficia Massimo Ciancimino. Trattasi di figlio di un mafioso, a sua volta riciclatore dei soldi criminalmente accumulati dal padre, protagonista di false intestazioni immobiliari, maggiordomo d’incontri con assassini, un individuo cui speri solo che la giustizia riesca a comminare le pene che merita. Ma qui scatta il miracolo: siccome si produce in racconti utili per collegare Silvio Berlusconi alla mafia, ecco che il rampollo della disonorata società diventa star dell’antimafiosità politicizzata e d’accatto, utilizzato da qualche magistrato e dall’imponente blocco pubblicistico che lo trasfigura in riciclatore dell’anima sua. Al punto da potere aspirare a rimettere le mani su piccioli non suoi, perché se la giustizia funzionasse dovrebbero essere prima sequestrati e poi pignoranti, per andare a rimpinguare le casse di uno Stato già abbondantemente danneggiato dai Ciancimino.
Ma non basta, perché i miracoli sono stupefacenti per definizione: lo si è trasformato anche in madonna pellegrina che va in giro presentando un libro di confessioni e rivelazioni, che, come abbiamo più volte dimostrato, è un cumulo di fandonie frammiste a ovvietà, raccogliendo platee cui si fornisce lo spettacolo indecente di un condannato che usa il padre morto e il figlio da poco nato per strappare qualche applauso impietosito. Si dice coraggioso, e a chi gli fa notare che il suo argomentare non sta in piedi, a chi gli ricorda d’essere stato complice dei mafiosi, egli risponde serafico: vorrei vedere lei al mio posto, con un padre dispostico e in totale dipendenza da lui. Come se i figli dei criminali debbano essere criminali a loro volta per forza di natura, se non addirittura per affetto. Lui lo è stato per convenienza. Può darsi che lo sia stato anche per viltà, ma non riesco a considerarla un’attenuante.
Il nettare della sua narrazione pubblica, replica fantasiosa di quanto raccontato alle procure, è il seguente: Vito Ciancimino, il padre, fu lo stratega e il negoziatore della trattativa fra la mafia corleonese, nella persona di Bernardo Provenzano, e il nuovo potere politico, nella persona di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo ebbe rapporti diretti, di fattiva collaborazione, con il mafioso Vito, o d’indiretta intesa con i corleonesi, mediante Marcello Dell’Utri. Il tutto destinato a porre fine alla stagione stragista e far avere all’ala non forsennata dei corleonesi le concessioni necessarie a placare l’incedere operativo dei bombaroli. Ci mancano solo i sette nani alleati di cappuccetto rosso. Peccato che Giovanni Conso abbia chiarito il quadro: è vero che il governo decise di fare delle concessioni ai mafiosi, è vero che fu cancellato il carcere duro (41 bis della legge che regola la detenzione) per far cessare le bombe, è vero che al ministero della giustizia si accettò il nesso fra le due cose, ma correva l’anno 1993 e a Palazzo Chigi sedeva Carlo Azelio Ciampi. Per intenderci: Giulio Andreotti era già stato fatto fuori e Berlusconi politico non era ancora nato.
Noi abbiamo più volte sostenuto che la trama della trattativa, così come raccontata anche da soggetti come Gaspare Spatuzza, mancava dei requisiti logici e cronologici. Abbiamo usato il ragionamento e la memoria. Dopo le parole di Conso, che firmò personalmente, quale ministro della Giustizia, i provvedimenti dei quali ora parla, siamo tenuti ad escludere che altri responsabili istituzionali non ne fossero al corrente: il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro), il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione bicamerale antimafia (Luciano Violante). Tutti loro hanno molto e a lungo argomentato tesi e additato complotti che vengono sbugiardati dalla realtà dei fatti ora emersi. Tre incapaci, tre depistatori o tre mestatori?
Torniamo a Massimo Ciancimino. Noi non abbiamo mai chiamato “pentiti” i collaboratori di giustizia. Non esprimo giudizi morali, perché è evidente che le più preziose notizie dall’interno del mondo criminale non possono che venire da criminali. Mi sta bene anche il patto con loro: tu mi dici quello che sai, mi aiuti a provarlo, e io Stato ti faccio lo sconto, anche assai generoso, sulla pena che dovresti altrimenti scontare. Ma è necessaria una postilla: se mi prendi in giro te la faccio pagare, con gli interessi. In questo Paese scombinato, però, non si può dire, perché si alza subito qualche colorito rappresentante dell’antimafia militante e ti dice: così vuoi chiudere la bocca ai collaboratori. No, è che non vorrei chiuderla alla legalità.
Poi arriva il procuratore di turno e teorizza: Ciancimino è credibile a intermittenza. Come gli alberi di Natale. A seconda di quel che dice. Ci sto, ma lo restituiamo alla sua sorte di condannato, perché un collaboratore di giustizia non può raccontare balle. Noi, fin qui, non solo glielo abbiamo consentito, ma ne abbiamo fatto un’icona. Abbiamo divizzato il cattivo esempio. E’ tempo di chiudere questa vergogna.
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