La neo unione tra Fini e Casini sembra l’ultima piroetta di una quadriglia. Per lustri, hanno cercato di ingraziarsi il Cav volteggiando con lui, fino a rompersi le ossa in estenuanti galop, inchini e svolazzi vari. Ma la vanitosa damigella di Arcore, si è goduta il corteggiamento, senza scegliere tra i rivali. Così i due, che avevano cominciato le danze a quarant’anni, sono arrivati alle soglie dei sessanta senza cavare un ragno dal buco. E ora, colmi di rancore per la bella inafferrabile, hanno rinunciato alla conquista e si sono messi a ballare tra loro.
L’alleanza, siglata l’altro ieri nel romano Hotel Minerva e che va sotto il nome di Polo della Nazione, è quella tra una coppia di maturi giovanotti uniti dalla sconfitta. Sono azzoppati e stanchi e non hanno nulla da dire. A tenerli in piedi è solo il desiderio di vendetta e la patetica circostanza che, giunti alla loro età, non ci si può reinventare la vita. L’hanno dedicata alla politica senza averne le qualità e sono ora costretti a stare sulla scena perpetuando la propria mediocrità. Hanno la nostra umana comprensione, anche se non è chiaro a cosa puntino unendo due debolezze. Indigna invece che si mettano insieme per dare addosso al Cav. Per farlo, ci vuole una dose industriale d’ingratitudine. Senza di lui, infatti, di entrambi si sarebbe da tempo persa la memoria.
Fu il Berlusca a ripescarli mentre si inabissavano col crollo della prima Repubblica nel 1994. Fini, a capo del Msi, aveva le ore contate. Fu solo la mano tesa del Cav che gli evitò il dimenticatoio. Idem Casini che stava per naufragare con la Dc travolta dalle inchieste di Mani pulite. Il Cav li riacciuffò in extremis, offrendo a ciascuno una cuccia. Il suo errore, col senno di poi, è stato quello di non saperli soppesare e dargli spago aldilà dei meriti. I due si sono ringalluzziti e, dimenticando di essere dei sopravvissuti per grazia altrui, hanno creduto di essere vivi per forza propria.
Ciò che accomuna la coppia di bolognesi è, infatti, l’auto indulgenza: si credono aquilotti e sono tordi. Una volta rifocillati, hanno cominciato a percepire la benevolenza del Cav come una cappa che gli impediva di spiccare il volo. E si sono applicati a scalzarlo. Ora, per avere tramato insieme, sono convinti di potere marciare uniti. Tutto invece dimostra il contrario.
Sono due primedonne inclini all’inganno per prevalere. Fini ha già imbrogliato Casini una volta. Quando nel novembre del 2007, il Berlusca annunciò dal predellino la nascita del Pdl, Gianfry disse: «Siamo alle comiche finali». Era inviperito per essere stato preso alla sprovvista. Ci rimase male anche Casini che era ancora nel centrodestra. «Un colpo di teatro», commentò. E subito i due decisero di reagire. Fini promise all’altro di far fallire il progetto e gli giurò che mai An sarebbe confluita nel Pdl. Tre mesi dopo, impaurito di andare alle elezioni da solo, Fini entrò nel Pdl, lasciando Pierferdy con un palmo di naso. Da allora, sanno di non potersi fidare l’uno dell’altro. Con la nascita, 48 ore fa, del Polo della Nazione, Casini si è preso la rivincita. Nella nuova compagine, infatti, Fini - sconfitto nella prova di forza col Cav sulla sfiducia al governo - è il gregario e Pierferdy il numero uno. Con due galli nello stesso pollaio, le scintille sono garantite. Chi dei due, in caso di elezioni anticipate, sarà il leader del brancaleonesco terzo polo?
Lasciamo ai politologi le previsioni sul futuro e l’analisi di ciò che separa i due tordi: baciapile Casini, mangiapreti Fini; contrario alla riforma universitaria il primo, favorevole alla riforma il secondo; l’uno, fedele alle colline di Bologna per il pic-nic, l’altro appassionato di moules (impepata di cozze) a Montecarlo, ecc. Per parte nostra, ci limitiamo a illuminare il valore dei due pennuti con una carrellata sulle rispettive carriere all’ombra del berlusconismo.
Fini nel 1994 era il ducetto nostalgico di un partitello neofascista. Già antipatico e supponente non sarebbe durato a lungo come leader. Per togliersi dalle peste, fece un passo indietro e, da leader nazionale, si candidò nel ’93 a sindaco di Roma contro Rutelli, ora suo sodale nel Polo della Nazione. Ebbe, nell’occasione, una bella botta di sedere: il Berlusca dichiarò che, se avesse votato a Roma, lo avrebbe preferito a Cicciobello. Era l’offerta di un’alleanza e fu la svolta. Dopo la vittoria nel ’94, il Cav prese il rottame alla sua corte e il Msi cambiò pelle e nome. Fini e i suoi divennero ministri e sottosegretari. Gianfry si montò il cervellino e cominciò a pensare che la luce del Berlusca, che lo illuminava, in realtà gli facesse ombra. Ebbe la genialata di allearsi con Mariotto Segni per le Europee in concorrenza col Polo. Cercava spazio. Si beccò invece una randellata: i due insieme presero meno di An da sola alle politiche di tre anni prima. Gianfry tornò all’ovile e inaugurò una nuova tecnica per essere molesto. Nulla gli andava a fagiolo. Non gli piaceva la Lega, lo innervosiva Tremonti e questo e quello. A ogni petulata, si beccava una nuova poltrona. Col Berlusconi bis, ebbe la vicepresidenza del Consiglio; col tris, la Farnesina; col quater - l’attuale - si è insediato alla presidenza della Camera. Il resto è noto. Perduta An, confluita nel Pdl, si è messo a giocare in proprio. Ha inventato la «destra moderna», gli sono venute le rughe alle palpebre a furia di strizzare l’occhio alla sinistra contro il Cav, a Di Pietro per la legalità, ai Tulliani per gli affari tv e quelli monegaschi. Ha rafforzato il fondo schiena per tenersi attaccato alla poltrona di Montecitorio e, forte del pulpito, ha fondato un suo partito di cartapesta. Ora, dopo avere messo in crisi il governo e dominato la scena per mesi, l’ha persa in favore di Casini cui ha chiesto asilo.
Pierferdy nel 1994 era il più noto portaborse Dc. Lo era stato di Bisaglia e, alla sua morte, di Forlani. Travolto costui da Tangentopoli, Casini depose le penne del tordo e fece il salto della quaglia sulla groppa del Cav. Da quell’appolaiamento, iniziò un’inestimabile carriera. Surclassando Fini nella veste di rompiscatole, ottenne per sé la presidenza della Camera nel 2001 e fior di ministeri per gli altri dell’Udc. Era incontentabile. Non gli garbava la destra, perché puntava al centro. Non la politica economica del Cav perché puntava ai cittadini e non alle famiglie. Non i toni forti del Berlusca perché escludevano gli inciuci dorotei ai quali era avvezzo dall’infanzia (il babbo di Pierferdy era un leader Dc di Bologna). Stufi delle sue paturnie, lasciarono l’Udc per il Pdl, Fontana, D’Antoni, Baccini, Rotondi, Giovanardi, altri. Quando il partito si ridusse a un carciofo senza petali, Pierferdy piantò il Cav sperando di ridurre l’emorragia e trovare - grazie al voltafaccia - comprensione a sinistra. Gli andò male e sono cinque anni che non ha cariche. Ora punta col consiglio di Fini, che in fatto di poltrone è un rifinito tappezziere, almeno in uno strapuntino. Sogna: due evanescenze non fanno uno sgabello. (il Giornale)
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