Le accuse sollevate da un documentario norvegese nei confronti del premio Nobel per la Pace Mohammed Yunus, se si rivelassero vere, provocherebbero la definitiva incrinatura della sua principale invenzione, il microcredito. In altre parole, di un sistema di microfinanziamenti senza garanzie a favore di famiglie poverissime che scricchiola da anni, ma che fino ad oggi è stato talmente politically correct da non poter essere criticato per principio.
Se davvero l’equivalente di 47 milioni di euro donati tra il 1996 e il 1998 alla Grameen Bank fossero stati girati senza autorizzazione a favore di una società sanitaria che fa sempre capo a Yunus, il buonismo occidentale per un po’ sarebbe indotto a tacere. E quel terzomondismo trito che prontamente si era gettato tra le braccia del microcredito trovandovi una cura miracolosa alla povertà, il Bene che trionfava sulle perversioni speculatorie del Capitalismo, sarebbe costretto per una volta ad ammettere che il sistema è lungi dall’essere la soluzione alla miseria nel mondo.
L’idea di base di Yunus è che tutti gli uomini sono potenziali, innati imprenditori, e che l’unica differenza tra un povero e un ricco è l’accesso al credito. C’è da dire che fermandosi ai dati ufficiali della Grameen Bank, l'ottimistica convinzione del “Banchiere dei poveri” (come lui stesso si è definito) sembra essere confermata da un successo incontestabile. Yunus concesse personalmente a cinque donne del Bangladesh il primo prestito senza garanzia nel 1978, oggi più di 150 milioni di persone fanno ricorso a questo tipo di finanziamento. Gli istituti di credito che s’ispirano o dipendono dall’originaria Grameen Bank bengalese sono ormai centinaia in tutto il mondo. È dimostrato che il tasso d’interesse del 20% attuato dalla banca di Yunus, per noi una follia, in paesi come l’India e il Pakistan è preferibile rispetto a fare ricorso agli usurai locali, che arrivano a chiedere un tasso annuale del 50, se non del 100%. La Grameen Bank ha per il 94% clienti donne e ha così permesso loro di accedere ad una banca, spesso per la prima volta. Infine, il tasso di risanamento del debito è del 98%, cioè immensamente alto.
Andando però a osservare in che modo e con quali risultati sia stata combattuta l’indigenza grazie alla rivoluzionaria idea del microcredito, ci si rende conto di quanto il sistema sia stato sopravvalutato. E di come, anche in termini morali, i suoi effetti siano molto meno buoni ed univoci del decennale e consolante luogo comune a cui siamo stati abituati.
La professoressa del MIT Esther Duflo, in un articolo pubblicato su Le Monde nel gennaio scorso, spiega che è per la natura stessa delle sue regole che il microcredito non è in grado di essere la soluzione alla povertà: “Un primo aspetto è la responsabilità solidale, marchio di fabbrica del microcredito”. Come spiega l’economista francese, questo sistema disincentiva il rischio, e quindi la possibilità che una donna avvii attività con prospettive di guadagno, perché le altre donne, che non ricavano nulla dall’eventuale successo dell’investimento ma sono responsabili del debito, non vogliono essere obbligate a ripagarlo. “Anche il rimborso settimanale, altra pietra miliare del microcredito, hai i suoi limiti”. In effetti, scadenze così ravvicinate permettono di risanare il debito, ma impediscono di investire. Il risultato, come dimostrato da uno studio di due istituti francesi (Ird e Cirap), è che in otto casi su dieci i prestiti si tramutano in acquisti di beni di consumo, dai televisori alle cure mediche. Si tratta quindi di finanziamenti che migliorano forse la sopravvivenza, ma che non riusciranno mai ad eliminare la povertà semplicemente perché non producono alcuna ricchezza.
Esiste poi il lato tragico e paradossale di questo sistema: l’usura. Molti non sono in grado di rispettare il dovuto rimborso settimanale, per cui decidono di ricorrere ad usurai e finiscono per inserirsi in una drammatica sequela di indebitamenti a catena. Il microcredito si rivela infine grottesco, cinico e definitivamente immorale quando si scopre, come due settimane fa, che al maggiore istituto di microcredito indiano, la SKS, si possono associare con certezza circa cinquanta suicidi di debitrici insolventi. È emerso infatti che sono gli stessi creditori a suggerire alle loro clienti in difficoltà di uccidersi, in maniera da poter ricevere l’indennizzo previsto in caso di morte del debitore. Tra le accuse recenti, le aspettative deluse e il cinismo che sa dispiegare, il microcredito oggi è in crisi. Nonostante tutto, aspettiamoci comunque che il buonismo cieco ed espiatorio si staccherà dalla sua formula magica terzomondista solo con grande riluttanza.(l'Occidentale)
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