giovedì 27 gennaio 2011
Dopo la Tunisia l'Egitto? Carlo Panella
Continuano le manifestazioni dell’opposizione in Tunisia e intanto il contagio della “rivolta dei gelsomini” di Tunisi coinvolge il Cairo, Alessandria, Ismailia, Port Said e altre città egiziane (200.000 i manifestanti in tutto), mentre il “giorno della collera” proclamato dal premier libanese spodestato porta in piazza decine di migliaia di manifestanti a Beirut e a Tripoli (con forti scontri). Il mondo arabo si ritrova così, all’improvviso, percorso e sconvolto da una rabbia popolare che la crisi economica ha inasprito e che i regimi affrontano con timore e paura del peggio. Identiche le motivazioni dei manifestanti (voglia di libertà e soprattutto di lavoro, rigetto dei raìs corrotti che mal governano), simile e sorprendente la forza delle mobilitazioni di massa, ma anche diversi gli scenari. In Tunisia Ben Ali è stato costretto alla fuga non solo dalla forza del movimento di protesta, ma anche dalla stupida rigidità del suo regime e della sua vorace famiglia che hanno impedito riforme, concessioni democratiche e economiche indispensabili. Diverso il quadro dell’Egitto che ha visto ben 30.000 manifestanti affollare la piazza Tahrir, chiamati non tanto dai partiti storici dell’opposizione (Fratelli Musulmani, i Liberali e lo storico Wafd, oggi guidato dal Nobel El Baradei) quanto dalla “rete” (Twitter e Facebook, subito oscurati dal governo) che sta dimostrandosi un formidabile strumento per organizzare la rabbia dal basso. Slogan contro Mubarak (“Dimissioni subito!”), parola d’ordine generale: “La Tunisia è la soluzione” e scontri con le forze dell’ordine che al Cairo hanno lanciato lacrimogeni e abbondantemente manganellato (come peraltro a Ismailia), con svariate decine di arresti e, pare, un poliziotto morto, calpestato dalla folla. Ma il regime di Mubarak e la società egiziana, sono molto diversi da quelli della Tunisia. Nonostante le leggi di emergenza in vigore dal 1982, in Egitto ci sono elezioni parlamentari, non libere (i Fratelli Musulmani, l’ultima volta, ma non la precedente, sono stati esclusi), ma che permettono una certa rappresentanza delle diverse componenti sociali. La stessa economia egiziana ha visto timide riforme liberalizzatrici sostenute dal figlio (e probabile successore, di Hosni Mubarak) Gamal. Un quadro che fa ipotizzare –salvo rapida verifica- che il regime possa rispondere alla piazza con flessibilità, con riforme, senza farsene travolgere. Ancora diversa la situazione in Libano, là dove i manifestanti sono stati chiamati in piazza per la loro “giornata della collera”, dal premier del governo uscente, Saad Hariri, per rispondere al colpo di mano mandato a segno da Hezbollah che l’ha fatto dimissionare e –grazie all’ennesimo voltafaccia del druso Walid Jumblatt- lo ha ieri sostituito con il tiycoon sunnita Najjb Mikati, premier di un governo completamente nelle mani di Hezbollah che si prepara a rigettare gli ordini di cattura contro dirigenti di Hezbollah che il Tribunale speciale dell’Onu per il Libano emetterà tra pochi giorni per l’assassinio nel 2005 di Rafik Hariri, padre di Saad. Un governo che riporta il Libano sotto il controllo politico della Siria (e dell’Iran), e che si prepara ad uno scontro frontale contro il fronte antisiriano libanese guidato da Saad Hariri, dopo che le mediazioni dell’Arabia Saudita e della Turchia sono fallite. Pessimi segnali non per una possibile rivolta libanese “alla tunisina”, ma per qualcosa di molto simile ad una nuova guerra civile (e anche per la ripresa di una, politica di aggressione contro Israele). (Libero)
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