La riforma dell’università è il successo più recente del governo. Un passo in avanti che sarebbe sciocco considerare risolutivo, sia per il contenuto che per la necessità di diversi decreti attuativi, di là da venire e ancora in attesa di copertura. La riforma della pubblica amministrazione è alle spalle, e anche questa è un successo del governo. Ma nella sua parte succosa, relativa al premio per la qualità, subisce il rallentamento dovuto ai rigori del bilancio. Sono due esempi di cose fatte, che solo la propaganda ottusa può denigrare, ma che solo la parimenti insulsa, e opposta, propaganda può considerare il segno che si è girato pagina. Le riforme di cui ha bisogno l’Italia, che definirei più liberatorie che liberali, non hanno ancora preso corpo.
L’opposizione sostiene che non è stato fatto nulla. La maggioranza che è stato fatto molto. Un bilancino di cui ai cittadini interessa poco e niente. La metterei in modo diverso: è mancato il segnale del cambiamento profondo, restano sospese riforme indispensabili, che dovrebbero rispondere a un complessivo disegno di modernizzazione, riduzione dell’invadenza burocratica, alleggerimento della pressione fiscale, contenimento della spesa pubblica che sia frutto di cambiamenti strutturali e non di tagli lineari (conseguenza della necessità e di una cosa che molti tendono a dimenticare: ignoranza sulla reale composizione della spesa). La sinistra ha ben poco da reclamare, perché su ciascuno dei temi decisivi assume posizioni conservatrici, quando non direttamente reazionarie.
A cominciare dalla giustizia. Non esiste alcun Paese ove possa affermarsi lo Stato di diritto nel mentre i tribunali vanno in bancarotta. Qualche volta fa capolino, sulle prime pagine, la notizia del criminale scarcerato per decorrenza dei termini, perché il giudice ha impiegato anni a scrivere la sentenza, ma è solo una punta del problema. Nei tribunali italiani s’incenerisce la certezza del diritto, che è certezza dei diritti. Se non so quando verrò pagato, se non ho la certezza che chi non rispetta i patti sarà punito, semplicemente vado ad investire altrove. Non si tratta, quindi, di una riforma destinata a regolare i conti fra giustizia e politica, ma a far tornare i conti nel mercato.
Servono: separazione delle carriere, tempi certi e sempre perentori, allontanamento dei magistrati che sbagliano, controllo di produttività. Si oppongono le toghe corporativizzate. Va detto chiaramente: la giustizia non è un affare delle toghe, ma dei cittadini. Se in questa direzione non ci si muove, e in fretta, si affonda nel pantano.
Il mercato del lavoro deve essere reso assai più permeabile. In uscita, che è doloroso, ma anche in entrata, che è virtuoso. La Fiat sta cambiando le sue relazioni industriali, mandando in soffitta la deleteria prassi della concertazione. Per farlo ha licenziato la Cgil, ma anche Confindustria. Andiamo avanti in questo modo, sotto la pressione degli investimenti che altrimenti non si faranno e delle fabbriche che altrimenti chiuderanno, o ci mettiamo, tutti, nella condizione di cogliere le opportunità offerte da mercati ed economie che crescono più che da noi? Farlo significa anche dire ai giovani che essi non sono degli esclusi destinati a pagare le pensioni degli altri, mentre non ne avranno una propria.
Abbiamo un fisco opprimente e dispotico. Paghiamo troppe tasse e troppi le evadono. Anziché rimediare, anziché alleggerire il peso fiscale sulla produttività, si continua a ritenere tutti i contribuenti disonesti, consegnando al fisco il diritto d’incassare subito anche quel che il cittadino contesta. Risultato: gli onesti pagheranno e saranno svillaneggiati, i disonesti se ne faranno un baffo. Non ha senso, oltre ad essere abominevole. Certo, esiste il debito pubblico, ma è follia pensare di soddisfarne i bisogni spremendo i produttori di ricchezza, laddove si dovrebbe essere capaci di strangolarne i dilapidatori. Lo Stato, insomma, deve partire dal riformare sé stesso e la sua spesa, se vuole avere credibilità.
La grande riforma di liberazione deve portare più mercato nello Stato e offrire più mercato a quei servizi pubblici che funzionano. Non si tratta (solo) di privatizzare, ma di far entrare la cultura della produttività e della economicità in ogni stanza pubblica, anche usando i privati.
Una catena non è composta da tanti anelli, ma da anelli legati fra loro, rispondenti ad una sola logica. Questa è la rivoluzione alla quale lavorare, anche per spezzare le catene del passato.
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