Tempo addietro “Il Messaggero” ammoniva che in Italia circa i due terzi del bilancio statale sulla giustizia venivano assorbiti in costi per le intercettazioni telefoniche. E molte aziende, private, che su delega delle procure si occupano di ciò, battono sempre più spesso cassa a via Arenula per arretrati a sei zeri.
Ora, se a a causa della carta mancante non è stato invece possibile scrivere in quattro anni una sentenza che spedisse definitivamente in carcere un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo, determinandone invece la scarcerazione per decorrenza dei termini, molti si chiedono, compresi i ministri Alfano e Rotondi, dove la procura di Milano trovi tutti questi soldi per fare intercettare le utenze di un centinaio di persone per un anno per incastrare Berlusconi.
Il tutto per un reato, quello di essere “l’utilizzatore finale” della prostituzione minorile di Ruby Rubacuori, che nella fattispecie prospettata può portare alla pena massima di tre anni e a quella minima di sei mesi. E considerata l’incensuratezza della persona, la pena comminata dovrebbe essere sicuramente più vicina al minimo che al massimo.
Volendo ci sarebbe anche la concussione, ma in una fattispecie talmente aleatoria, che non ne fa il vero oggetto dell’indagine in atto. E poi per questo reato non risultano disposte intercettazioni, almeno da quel che emerge dalle carte sui giornali. Insomma, se vogliamo, la domanda è retorica: i milioni di euro finora utilizzati per intercettare Ruby e le altre presunte meretrici di Babilonia, la procura di Milano non deve fare molta fatica a trovarli, perché li anticipano gli operatori che fanno le intercettazioni salvo poi questi ultimi presentare il conto allo stesso Alfano.
Ma questa prassi riporta di attualità la famosa riforma sulla disciplina dell’ascolto delle conversazioni dei privati cittadini e non già per motivi di privacy, quanto per i costi. In America se un investigatore dell’Fbi andasse dal procuratore distrettuale di New York e chiedesse, ad esempio, sei milioni di euro per piazzare cimici e microspie per smascherare un giro di prostituzione di alto bordo che porterà come risultato solo lo “sputtanamento” di qualche politico e di un po’ di vip sui giornali, riceverebbe in risposta un “ma lei è pazzo o cosa?” In Italia, invece, siccome la meritocrazia delle inchieste si basa sul clamore mediatico e non sui reali effetti per la collettività, un qualunque pm otterrebbe carta bianca.
Da noi nel 2007 le intercettazioni sono costate dieci milioni di euro, nel 2008 sedici milioni e nel 2009 più di ventitré milioni, circa il 67% rispetto al totale generale delle spese sostenute nel grande comparto Giustizia. Ne vale la pena in queste condizioni? Se il risultato è quello che vengono scarcerati i boss perché non si possono pagare le risme di carta per fare estendere ad alcuni giudici le sentenze che li seppellirebbero sotto i meritati ergastoli, da una parte, e, dall’altra, godersi lo spettacolo di tutte queste “cocotte” che parlano a ruota libera del premier, ci sarebbe da discutere.
Quando alcuni giorni fa il ministro Alfano diceva a “Ballarò” che, almeno nel caso “Rubygate”, “c’è stato un uso delle intercettazioni straordinario e sproporzionato, neanche si trattasse di una retata per un narcotrafficante” e che “è stata usata l’attività di indagine più invasiva, con un impiego di risorse straordinario, un uso spropositato dei mezzi”, diceva una cosa difficilmente contestabile.
Forse gli italiani saranno contenti di pagare sempre più tasse anche per queste esigenze di sputtanamento dei potenti, ma - visto che i vantaggi vanno soprattutto ai quotidiani - di destra e di sinistra, che utilizzano i brogliacci delle intercettazioni per riempire anche dieci pagine al giorno (vedi ieri “Libero”), risparmiando sui costi e raddoppiando le vendite, un’idea potrebbe essere anche quella di presentare ai loro editori il conto di queste attività investigative a carico di Berlusconi.
Così si potrà constatare, anche dal loro punto di vista, se il gioco vale ancora la candela. (l'Opinione)
Ora, se a a causa della carta mancante non è stato invece possibile scrivere in quattro anni una sentenza che spedisse definitivamente in carcere un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo, determinandone invece la scarcerazione per decorrenza dei termini, molti si chiedono, compresi i ministri Alfano e Rotondi, dove la procura di Milano trovi tutti questi soldi per fare intercettare le utenze di un centinaio di persone per un anno per incastrare Berlusconi.
Il tutto per un reato, quello di essere “l’utilizzatore finale” della prostituzione minorile di Ruby Rubacuori, che nella fattispecie prospettata può portare alla pena massima di tre anni e a quella minima di sei mesi. E considerata l’incensuratezza della persona, la pena comminata dovrebbe essere sicuramente più vicina al minimo che al massimo.
Volendo ci sarebbe anche la concussione, ma in una fattispecie talmente aleatoria, che non ne fa il vero oggetto dell’indagine in atto. E poi per questo reato non risultano disposte intercettazioni, almeno da quel che emerge dalle carte sui giornali. Insomma, se vogliamo, la domanda è retorica: i milioni di euro finora utilizzati per intercettare Ruby e le altre presunte meretrici di Babilonia, la procura di Milano non deve fare molta fatica a trovarli, perché li anticipano gli operatori che fanno le intercettazioni salvo poi questi ultimi presentare il conto allo stesso Alfano.
Ma questa prassi riporta di attualità la famosa riforma sulla disciplina dell’ascolto delle conversazioni dei privati cittadini e non già per motivi di privacy, quanto per i costi. In America se un investigatore dell’Fbi andasse dal procuratore distrettuale di New York e chiedesse, ad esempio, sei milioni di euro per piazzare cimici e microspie per smascherare un giro di prostituzione di alto bordo che porterà come risultato solo lo “sputtanamento” di qualche politico e di un po’ di vip sui giornali, riceverebbe in risposta un “ma lei è pazzo o cosa?” In Italia, invece, siccome la meritocrazia delle inchieste si basa sul clamore mediatico e non sui reali effetti per la collettività, un qualunque pm otterrebbe carta bianca.
Da noi nel 2007 le intercettazioni sono costate dieci milioni di euro, nel 2008 sedici milioni e nel 2009 più di ventitré milioni, circa il 67% rispetto al totale generale delle spese sostenute nel grande comparto Giustizia. Ne vale la pena in queste condizioni? Se il risultato è quello che vengono scarcerati i boss perché non si possono pagare le risme di carta per fare estendere ad alcuni giudici le sentenze che li seppellirebbero sotto i meritati ergastoli, da una parte, e, dall’altra, godersi lo spettacolo di tutte queste “cocotte” che parlano a ruota libera del premier, ci sarebbe da discutere.
Quando alcuni giorni fa il ministro Alfano diceva a “Ballarò” che, almeno nel caso “Rubygate”, “c’è stato un uso delle intercettazioni straordinario e sproporzionato, neanche si trattasse di una retata per un narcotrafficante” e che “è stata usata l’attività di indagine più invasiva, con un impiego di risorse straordinario, un uso spropositato dei mezzi”, diceva una cosa difficilmente contestabile.
Forse gli italiani saranno contenti di pagare sempre più tasse anche per queste esigenze di sputtanamento dei potenti, ma - visto che i vantaggi vanno soprattutto ai quotidiani - di destra e di sinistra, che utilizzano i brogliacci delle intercettazioni per riempire anche dieci pagine al giorno (vedi ieri “Libero”), risparmiando sui costi e raddoppiando le vendite, un’idea potrebbe essere anche quella di presentare ai loro editori il conto di queste attività investigative a carico di Berlusconi.
Così si potrà constatare, anche dal loro punto di vista, se il gioco vale ancora la candela. (l'Opinione)
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