Passata la festa è arrivato anche il regalo. Oggi la Commissione finanze è riuscita a ricomporre il conflitto tra il Governo ed i parlamentari di maggioranza e di minoranza in merito all’approvanda disciplina legislativa che renderà obbligatoria la presenza di una quota di donne pari ad almeno il 30% nei consigli di amministrazione delle società italiane quotate (pubbliche o private che siano).
E così dopo l’indigestione di retorica politicamente corretta che dobbiamo puntualmente sorbirci ogni 8 marzo che il buon Dio manda sulla terra, dobbiamo anche fronteggiare l’entusiasmo unanime verso un provvedimento che aprirà anche il nostro Paese alle sorti magnifiche e progressive della parità sessista. E non si trova nessuno che abbia il coraggio di dire, o quantomeno di avanzare il dubbio, che quella approvata ieri in Commissione – come la corazzata Potёmkin – è una boiata pazzesca.
L’idea che per raggiungere una piena ed effettiva parità di genere sia di una qualche utilità introdurre quote di riserva in favore del (ex) sesso debole è il riflesso di quella cultura dirigistica, costruttivistica e statalista che opprime l’Italia e non solo l’Italia (visto che discipline del genere sono presenti anche in altri stati europei). Non siamo stati mai femministi in senso stretto, ma solo perché, per un liberale, la parità fra uomini e donne è un valore quasi scontato perché insito nel nostro codice genetico come conseguenza automatica del valore della libertà della persona. Nella nostra prospettiva il dovere dello Stato è puramente e semplicemente quello di rimuovere gli ostacoli normativi che (come accadeva fino a non molto tempo fa) impediscono alle donne di svolgere liberamente la propria personalità all’interno della vita sociale, politica, economica e culturale del Paese. L’introduzione di artificiose quote di riserva, oltre ad essere umiliante per le donne stesse, non fa fare un millimetro di progresso al percorso necessario per raggiungere una vera parità di genere, ed anzi lede gravemente i diritti di libertà di alcuni fra noi.
L’introduzione di quote rosa ci sembra sbagliata in via generale. Ci sembra la negazione della cultura del merito e della responsabilità individuale. Ma la cosa, se potrebbe essere tollerabile se riferita al funzionamento delle istituzioni politiche (es. formazione delle liste elettorali) o delle organizzazioni amministrative (es. riserva posti dirigenziali o posti a concorso), diventa addirittura incomprensibile se riferita al funzionamento di imprese private nella cui gestione lo Stato non dovrebbe intromettersi affatto. Il prezzo della brillante riforma decisa dal Senato sarà infatti sopportato dagli azionisti di quelle imprese i quali non saranno più liberi di scegliere a chi farla amministrare e potrebbero veder diminuito il rendimento del loro investimento.
Il fatto che dal 2012 le società quotate debbano avere nei propri CDA un numero minimo di donne si tradurrà in concreto, con ogni probabilità, nella proliferazione di mogli, fidanzate, amanti consiglieri di amministrazione. Con ciò saremo riusciti nella brillante operazione di indebolire la qualità della gestione delle imprese e al contempo consolidare l’idea di una donna la cui affermazione sociale dipende dalla generosità del maschio cui si accompagna. Nei salotti buoni della finanza sarà d’obbligo per ciascun maschio, che voglia ritenersi veramente affermato, poter esibire la propria consigliera d’amministrazione di fiducia un po’ come si portano in società gli animali di compagnia. Saremo anche riusciti ad indebolire ulteriormente l’autonomia delle donne (se va in crisi la relazione affettiva perdo non solo il marito o l’amante ma anche il lavoro!). Senza considerare poi che del beneficio di cui potranno godere alcune centinaia di donne “fortunate”, i milioni di donne che quotidianamente affrontano gli ostacoli della vita quotidiana, non sapranno proprio che farsene.
Il fatto è che come la rivoluzione anche la parità di genere non è un pranzo di gala. La parità non è oggetto di gentile concessione ma non può che essere il frutto di una dura conquista, di un lungo e faticoso lavoro. Un lavoro innanzitutto culturale. La verità è che se oggi, rimossi gli ostacoli normativi (dal diritto elettorale all’accesso alla magistratura, dall’ammissione all’esercito alla disciplina della maternità delle lavoratrici, dal divorzio all’aborto), la parità non è ancora pienamente realizzata la causa è essenzialmente nella cultura diffusa del Paese. Cultura diffusa soprattutto nelle donne, la quali crescono respirando ed assimilando un sistema di valori secondo il quale l’affermazione lavorativa, l’arricchimento, l’ambizione professionale non rientrano fra i valori prioritari dell’esistenza femminile. Naturalmente ci sono molte donne ambiziose, desiderose di affermarsi sul lavoro e di arricchirsi, ma sarebbe molto ipocrita negare che, soprattutto in alcune aree del Paese, queste sono una minoranza. Una minoranza guardata per di più con sospetto dalle altre donne. E’ forse un caso che oggi in Italia il 78% degli insegnati, ovvero di coloro che esercitano un lavoro sottopagato che ha perso il proprio prestigio sociale e che viene ritenuto più conciliabile con i tempi della famiglia, sia donna? Questo dato è il frutto di un complotto maschilista o deriva dal fatto che molte ragazze, dopo l’università, si indirizzano spontaneamente verso questo tipo di lavoro?
Ma se tutto ciò è vero, allora è chiaro che le quote rosa non servono. Se il problema è culturale, è necessario da un lato dare il tempo ai processi di evoluzione culturale di compiersi dall’altro lo Stato deve impegnarsi per rimuovere, dopo gli ostacoli di tipo normativo, anche quelli di carattere amministrativo. Ci sarebbe molto piaciuto ad esempio vedere un corteo dell’8 marzo nel quale, invece delle retoriche e mielose rivendicazioni sulla dignità della donna offesa dal vituperato Silvio Berlusconi, si fosse gridato richiedendo a gran voce un piano straordinario di asili nido che agevoli le giovani donne madri ad entrare nel mercato del lavoro ed a restarci anche dopo aver partorito.
Sul piano strettamente culturale poi sarebbe essenziale dimettere quelle posizioni velleitarie di chi, aborrendo il rischio di un’omologazione all’odiato maschio, rivendica la razionalità femminile come portatrice di valori altri e superiori. Le differenze psicologiche fra uomini e donne sono reali, benefiche e da rispettare. Ma cionondimeno il desiderio di profitto, di soldi, di potere e di successo non sono profili esclusivi della psicologia maschile ma sono tratti propri di ogni organizzazione collettiva che in un sistema democratico e di mercato, se opportunamente regolati, sono altamente benefici per la società. Non esiste la politica rosa, come non esiste l’economia rosa. La politica e l’economia potranno essere buone o cattive ma lo saranno non perché a guidarle saranno uomini o donne. Le regole di funzionamento delle nostre organizzazioni sociali rispondono ad una logica che è del tutto indipendente dal sesso di chi vi partecipa. Mentre però gli uomini hanno pienamente assimilato tale logica perché guidano tali processi da oltre duemila anni, le donne che si sono affacciate alla ribalta solo negli ultimi cento anni devono ancora farlo. Ma, solo quando vedremo ogni giorno donne sporcarsi le mani con il lavoro sporco della società, tradizionalmente svolto dagli uomini, potremo ritenere che la parità di genere sia davvero diventata realtà.
P.S. Un’ultima notazione. La Commissione finanze del Senato ha licenziato il testo all’unanimità ed anche il Governo che aveva avuto un timido sussulto di dignità (dilazionare l’introduzione delle quote in più anni) ha dovuto piegare la testa. Il che conferma che le leggi approvate a larga maggioranza sono spesso le peggiori. (Per fortuna oggi sono assai poche!) (l'Occidentale)
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