L’affare Dreyfus, eterno nel mito, durò in realtà poco più di dodici anni, dal 15 ottobre del 1894 al 21 luglio del 1906. Il capitano Alfred Dreyfus, accusato di alto tradimento, fu arrestato il 15 ottobre del 1894, fu processato dalla Corte marziale a partire dal 19 ottobre, fu condannato il 22 alla deportazione perpetua e alla perdita del grado. Il 13 aprile fu confinato sull'Isola del Diavolo, il 13 gennaio del 1898 Émile Zola scrisse sull'Aurore il celebre «J'accuse» e venne processato e condannato per diffamazione, il 7 agosto 1899 la Corte marziale di Rennes lo giudicò di nuovo colpevole, ma gli concesse le circostanze attenuanti e lo condannò a dieci anni di reclusione. Il 12 luglio del 1906, la Corte d’Appello annullò definitivamente il verdetto di Rennes, il 13 il Parlamento approvò la reintegrazione di Dreyfus nel grado di capitano, il 21 nel cortile dell'École militaire Dreyfus ricevette la croce di cavaliere della Legion d'onore.
L'affare Contrada dura già da più di quindici anni e non accenna a finire. Bruno Contrada è stato arrestato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, la notte di Natale del 1992 e si è consegnato al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, appena ha saputo della condanna definitiva, nel mese di maggio di quest'anno e ne uscirà, se non vi morirà prima, nel 2014. Niente di ciò che si parla, la concessione della grazia, il differimento della pena e gli arresti domiciliari, la revisione del processo, è veramente all'ordine del giorno. Molto difficilmente il capo della Stato potrà resistere al ricatto delle vedove dell'antimafia e concedergli la grazia, che peraltro Contrada non ha chiesto, non chiede e non chiederà, per ragioni umanitarie. Le vedove di Paolo Borsellino, dopo tre processi con relativi appelli e relative Cassazioni che sono stati incapaci di trovare e condannare gli esecutori della strage di via D'Amelio, non trovano di meglio che sfogarsi contro il poliziotto che a Palermo ha combattuto la mafia almeno come e quanto l'hanno fatto Borsellino e Falcone, ed è stato condannato soltanto per le calunnie dei mafiosi che ha combattuto.
Il tribunale di sorveglianza di Napoli, che dovrebbe decidere per il differimento della pena e per gli arresti domiciliari, ha già fatto morire in carcere più di uno sventurato finito nelle sue grinfie: l'ultimo caso è di tre anni fa, un tale Francesco Racco, un commerciante ambulante calabrese di 58 anni, che era rinchiuso nel carcere di Secondigliano per espiare la pena di dieci anni di reclusione inflittagli per il reato di associazione mafiosa. Portatore di una gravissima patologia, con il pericolo imminente di esito letale, questo Racco era stato tradotto dalla Casa circondariale di Locri in Calabria nel carcere di Secondigliano per sottoporsi tre volte alla settimana a sedute di dialisi nel centro clinico, ma era finito invece segregato in una lurida cella nella divisione dei detenuti comuni. Il suo avvocato aveva richiesto ripetutamente, fornendo inequivocabili perizie cliniche per certificare il pericoloso aggravarsi dello stato di salute, il differimento delle pena e gli arresti domiciliari o almeno gli arresti ospedalieri. Ma il Tribunale di sorveglianza di Napoli aveva respinto tutte le istanze sostenendo che in quella larva d'uomo «sussiste il pericolo concreto della commissione di delitti». L'ultima istanza era stata presentata il 14 aprile del 2004 ed era stata respinta dal Tribunale il 9 giugno: trentaquattro giorni dopo, il pericoloso malvivente veniva tirato fuori dalla cella e trasportato d'urgenza all'ospedale Cardarelli, dove giungeva cadavere.
Sullo sfondo di queste tragedie c'è anche la farsa. Il presidente di questo Tribunale di sorveglianza di Napoli è la stessa Angelica Di Giovanni che voleva trasferire Lino Jannuzzi, condannato per diffamazione su querela dei magistrati che avevano processato e condannato Enzo Tortora, dagli arresti domiciliari direttamente al carcere, con la motivazione che altrimenti il giornalista avrebbe continuato a scrivere, cioè a delinquere, come lo sventurato ambulante calabrese. Jannuzzi si salvò dal carcere solo in virtù della grazia concessagli dal presidente della Repubblica Ciampi, ma la Di Giovanni è finita sotto provvedimento disciplinare a causa dei suoi commenti sulla vicenda e viene difesa per l'occasione dall'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli: vale e dire che il prossimo 10 gennaio, quando il Tribunale di sorveglianza dovrà decidere sul caso Contrada, la decisione dovrà essere presa da un magistrato che è assistito dal magistrato che ha processato Contrada.
Quanto alla revisione del processo, questa dipende dalla Corte di Cassazione, quella stessa che prima ha annullato l'assoluzione di Contrada e poi ne ha ratificato la condanna (ma, dopo sette mesi, non ne ha ancora rese pubbliche le motivazioni). Per tacere che le maggiori resistenze a un processo che sveli gli autori e le trame del complotto e restituisca la libertà e l'onore a Bruno Contrada viene sempre da quel ministero dell'Interno, dove ancora si annidano quei centri di potere che sono stati all'origine dell'affare. Sotto tutti gli aspetti, l'affare Contrada sta messo peggio dell'affare Dreyfus, come è vero che i professionisti dell'antimafia sono persino peggio degli antisemiti e degli antidreyfusardi di un secolo fa. (il Giornale)
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