Prima di tutto: sono elezioni primarie. Non si sta scegliendo il presidente degli Stati Uniti in questi giorni, si sta votando per chi potrà candidarsi alla Casa Bianca. Eppure la copertura mediatica di questi primi voti americani ha dell'incredibile. Per la prima volta i telespettatori italiani vedono e sentono parlare di «caucus», dove i candidati sono scelti per acclamazione da piccole assemblee cittadine, o di piccole località che non sappiamo neppure indicare sulla carta geografica, come Dixville Notch e Hart's Location, rispettivamente 75 e 37 abitanti. Si seguono i sondaggi pre-elettorali su Barack Obama e Hillary Clinton come se uno dei due dovesse inevitabilmente guidare il Paese. E non si comprende sino in fondo quanta strada c'è ancora da fare.
Si sono tenute elezioni in Iowa e New Hampshire, ma devono ancora votare tutti gli altri Stati, compresi quelli più grandi che garantiscono ai candidati, in caso di vittoria, di accaparrarsi un numero decisivo di delegati. Sarà in Florida, in California, a New York che si combatteranno battaglie serie, dove si potrà incominciare a vedere chi potrà ricevere la nomination per la corsa alla Casa Bianca. Nei primi Stati dove si è votato, al contrario, si guadagna o si perde poco. Si può al massimo vedere chi resta in gara (continuando a ricevere finanziamenti dagli sponsor dopo la vittoria) o chi, più svantaggiato, viene definitivamente eliminato. Nell'Iowa e nel New Hampshire si sono combattute, più che altro, delle battaglie per la sopravvivenza dei candidati minori. Se il vincitore in Iowa vincerà anche la Casa Bianca, sarà per una pura coincidenza. Obama ha vinto nei caucus dell'Iowa, dove solo il 10% più politicizzato dello Stato si è recato nelle assemblee cittadine a passare un'ora e mezzo di chiacchiere per proclamare un vincitore. Gli americani che hanno di meglio da fare nella vita non sono andati.
Eppure la vittoria di Obama nell'Iowa ha suscitato un'ondata di entusiasmo nei salotti liberal e in Italia, dove Walter Veltroni ha scritto l'introduzione alla sua autobiografia (pubblicata da Rizzoli e diffusissima) e i principali quotidiani hanno dedicato due pagine intere al nuovo «obamismo». Alle prime elezioni primarie con voto segreto, nel New Hampshire, Obama era dato per vincente da tutti i sondaggisti, ma ha perso. Ha vinto Hillary Clinton, che secondo tutte le previsioni è il candidato sicuro dei Democratici, e che in queste prime elezioni primarie ha ribadito il suo primato. Obama ha incominciato a sgonfiarsi. Obama fa notizia perché è nero, si sospetta che sia anche musulmano e la nostra sinistra (quindi anche la maggioranza assoluta dei nostri media) lo vede come l'espressione della mitica «altra America»: quella multiculturale, che adocchia l'Islam, che lotta per l'emancipazione delle minoranze e garantisce diritti speciali alle categorie più svantaggiate. E' l'America politically correct che abolisce le armi e la pena di morte, è tollerante anche con gli intolleranti, chiede il permesso all'Onu prima di compiere qualsiasi azione e, di fronte al terrorismo, preferisce il dialogo all'autodifesa. E' un'America che probabilmente esiste solo nella mente dei nostri intellettuali di sinistra, visto che, chiunque diventi presidente, dovrà far fronte al problema dell'Iran e del terrorismo islamico anche con l'uso della forza (nessun candidato democratico, neppure Obama, ha negato di volerla usare in caso di necessità), dovrà tener conto di una popolazione che non rinuncia al Secondo Emendamento (armi) e che è quasi unanimemente favorevole alla pena di morte. Hillary Clinton, pur essendo una donna, non fa lo stesso effetto. Perché è un prodotto dell'establishment e dà l'idea che garantisca la continuità. I sondaggi che la davano perdente nel New Hampshire con 8-13 punti di distacco da Obama esprimevano più che altro una speranza, non riflettevano la realtà.
I Repubblicani, al contrario, non fanno notizia. Le loro primarie coinvolgono gli americani tanto quanto le votazioni dei Democratici. Tra loro non c'è nessuno che fa sognare i nostri commentatori. Anzi: molti fanno paura ai nostri buonisti. Mike Huckabee, il vincitore in Iowa, solleva giustamente molte perplessità, anche tra gli stessi Repubblicani, per il suo populismo. Al di là della sua piattaforma ufficiale, che è più liberale di qualsiasi programma italiano, il suo rapporto diretto con l'elettorato e la sua crociata contro l'establishment economico e «tecnocratico» riflettono una serie di paure contro la globalizzazione che albergano anche nella destra americana più conservatrice. Dalla parte opposta dello spettro politico repubblicano abbiamo un Ron Paul, che non fa notizia anche se è il vero rivoluzionario di queste elezioni. Ron Paul è un libertario, il suo programma consiste nel ridurre al minimo il potere dello Stato federale, la completa liberalizzazione di armi e droghe, la privatizzazione della Banca centrale e la restituzione di tutti i poteri da Washington ai singoli Stati. Vuole anche il ritiro di tutte le truppe entro i confini americani e per questo non raccoglie grandi consensi nell'elettorato di destra. Fred Thompson, che da noi è visto solo come una macchietta di destra (perché ha interpretato il serial «Law and Order»), si presenta all'elettorato come un continuatore della triade di Reagan: conservatore nell'etica, liberista in economia, unilateralista nella difesa. Neppure Mitt Romney fa notizia, anche se, in caso di vittoria, sarebbe il primo esponente di una minoranza religiosa (è un mormone) a diventare presidente degli Stati Uniti. Romney si presenta come un candidato pragmatico, il preferito dall'establishment repubblicano. Ha idee chiare che riassume in schemi: potenziare la difesa dal terrorismo, ridurre le tasse e le spese, pareggio di bilancio, lotta all'immigrazione clandestina.
Su quest'ultimo punto non è d'accordo John McCain, il vincitore nel New Hampshire, che è favorevole (assieme ai Democratici) all'amnistia per i clandestini. E, come i liberal, è anche favorevole alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Ai conservatori, però, piace per altri motivi: perché dice con cognizione di causa: «Prenderò Bin Laden, a costo di seguirlo fino alle porte dell'inferno» e si sa che potrà mantenere l'impegno. E' esperto di politica estera più di tutti gli altri candidati. E' stato militare di carriera e ha sperimentato sulla sua pelle l'orrore del totalitarismo: cinque anni e mezzo di gulag nel Vietnam del Nord, dove è stato imprigionato dal 1967 al 1973. E' alle spalle della decisione di rafforzare le truppe in Iraq e della nomina del generale David Petraeus, artefice delle migliori vittorie contro Al Qaeda nell'ultimo anno. John McCain, anche se in Italia non fa notizia, potrebbe essere l'uomo giusto per vincere la guerra contro il terrorismo. Così come potrebbe esserlo Rudolph Giuliani, il sindaco di New York nel fatidico 11 settembre, l'unico che ha delineato una strategia complessiva di alleanze con le democrazie asiatiche per sconfiggere la rete internazionale del terrore. Giuliani, che si è espresso a favore dei matrimoni gay e dell'aborto, potrebbe essere il volto nuovo della destra americana, assieme al quasi-liberal Arnold Schwarzenegger. Da noi lo si ricorda come l'artefice della «tolleranza zero», la sua strategia di ordine pubblico a New York. Che per i nostri commentatori è un simbolo di barbarie, ma per i cittadini newyorkesi è stato un toccasana, una politica che ha permesso loro di tornare a uscire di casa anche alla sera senza temere aggressioni. Ma da noi sono «particolari» che non contano. Qui nell'Italia di sinistra si continua a sognare che con Obama nasca un'«Altra America». (Ragionpolitica)
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