Lasciamo parlare il Papa alla Sapienza e ascoltiamo con civile rispetto quello che dirà, liberi, subito dopo, di approvare o criticare le sue affermazioni: l’invito ad andare gli è stato rivolto, nella piena osservanza delle regole, dal rettore e dal senato accademico dell’ateneo romano; Joseph Ratzinger ha tutti i titoli per intervenire in una cattedrale della cultura, come hanno fatto del resto alcuni suoi predecessori, e al pari di altre eminenti personalità. Recenti incidenti, come quelli avvenuti a Ratisbona e in Vaticano, renderanno del resto particolarmente cauti i ghost-writers della Santa Sede e lo stesso Pontefice.
Il caso che ha scatenato qualche decina di professori e un certo numero di studenti contro la visita papale ha tutta l’aria di rappresentare uno di quegli episodi tipicamente italiani che vengono cavalcati con furore ideologico e animo goliardico, al riparo di qualche motivazione strumentale (questa volta è la persecuzione ai danni di Galileo e l’abiura alle sue convinzioni cui lo scienziato fu a suo tempo costretto). Grandi polveroni, senza vera importanza. Tutt’altro rilievo ebbe la visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati, che il Papa polacco utilizzò per chiedere al Parlamento italiano di varare un provvedimento di clemenza in favore dei carcerati.
Ma allora, forse per il carisma di Wojtyla che nessuno ardiva criticare nella fase finale del suo pontificato, forse per il diverso clima politico, furono pochissime e flebili le voci di contestazione per quella che invece aveva il sapore di un’ingerenza. La verità è che nel nostro Paese assistiamo a una crescente invadenza della Chiesa, accentuatasi durante la lunga presidenza della conferenza episcopale da parte del cardinale Ruini. La Repubblica italiana, come hanno rilevato studiosi illustri, da Arturo Carlo Jemolo a Gian Enrico Rusconi, deve fare conti sempre più complicati con l’enorme rilevanza della Chiesa-istituzione e della sua immagine pubblica, in gran parte monopolizzata dalla figura e dal ruolo del Pontefice. La strategia della Chiesa investe gran parte delle sue energie sulla società civile, che si sforza di guidare. E ciò dilata e porta a un livello insostenibile di tensione l’antica questione della laicità dello Stato.
Di fronte a un magistero ecclesiale che, secondo molti, si concentra nella guida dei comportamenti interpersonali, spaziando dalla scuola alla famiglia alla bioetica fino ai temi complessi della genetica (cavalcati con determinazione da quegli efficaci alleati della gerarchia ecclesiastica che vanno sotto il nome di atei devoti) lo Stato vacilla. La Chiesa parla con la voce della certezza: Extra ecclesiam nulla vox. Lo Stato si trova esposto a pressioni di settori importanti dei suoi cittadini che si ispirano alla dottrina cattolica. Misurando la diversa capacità di fornire risposte sulle questioni fondamentali della vita, la Politica indietreggia: per convinzione, calcolo o subordinazione culturale ministri e segretari di partito aderiscono, si sottomettono o traccheggiano.
La complessità di questi problemi - che la posizione del Papa come vescovo di Roma moltiplica in infiniti equivoci - aiuta a capire perché il nostro Paese riesca con fatica a difendere l’equilibrio che si era espresso nella lunga stagione democristiana della Prima repubblica, imperniata sulla pratica conciliante di uno Stato sostanzialmente imparziale in cui nessuno poteva pretendere di imporre agli altri le proprie convinzioni. Chi si afferma laico oggi dovrebbe riflettere sulle ragioni di questo arretramento e, magari, impegnarsi a contrastarle. Senza immaginare laicità militanti alla francese, ma cercando di realizzare condizioni favorevoli alla convivenza. Chi si accontenta di imbrattare la facoltà di Fisica della Sapienza con cartelli in cui si annuncia la «settimana anticlericale» non è un laico. E nemmeno un tardo epigono del laicismo ottocentesco. Ma solo un intollerante pericoloso. (la Stampa)
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