Adesso si aspetta il giudizio del Consiglio di stato. E sia. Sarebbe meglio che Berlusconi si mettesse l’animo in pace e non rincorresse il destino della lista del Lazio. Piuttosto governi, per recuperare il tempo perduto. Di fronte al calo di popolarità (meno dieci punti rispetto al mese passato), il Presidente del Consiglio dovrebbe cambiare passo per non andare dritto alla sconfitta. E comunque dovrebbe considerare che non può fare tutto da sé ma nemmeno lasciare il Pdl nelle mani dei responsabili del disastro laziale. E’ finito il partito di papà. Il partito a cui ci si poteva rivolgere sapendo di trovare la porta aperta. Ad essere in crisi è il partito carismatico, quello di uomo solo al comando. Ed è in crisi da poche settimane, dal caos liste in Lazio e in Lombardia. La vicenda delle liste non può passare sotto silenzio, perché ha evidenziato che le elezioni non sono concepite come strumento democratico per selezionare una nuova classe di governanti ma piuttosto come una resa dei conti nei confronti dell’avversario. Anche se il metodo della cooptazione viene sempre più rifiutato da parte di coloro che lo vedono applicato per favorire i soliti raccomandati. Un episodio significativo del cambiamento di clima è il caso Santanché: al suo primo ingresso alla Camera nelle vesti di sottosegretaria, la Santanché è stata accolta da fischi e “buu”. Che non partivano dai banchi dell’opposizione, bensì dalla maggioranza. Insomma, Daniela si trova al governo perché l’ha voluta Berlusconi seguendo logiche di familismo che nulla hanno a che fare con la politica. A occhio nudo, si è vista la frattura tra teoria e prassi, tra politica e organizzazione. Senza l’una, si cade nell’organizzazione fine a se stessa, senza l’altra, nel puro politicismo. Alla prova dei fatti, il decreto interpretativo non è servito a un fico secco, anzi: ha ridicolizzato i promotori ai quali va anche il demerito di aver creato una situazione di forte disagio all’interno delle istituzioni.
Quindi, alla larga dei consiglieri giuridici di Palazzo Chigi: ne hanno fatte più di Carlo in Francia. A ben vedere la responsabilità è politica e ricade sul Pdl che si rivolge a costoro per sciogliere i nodi politici. Anche se non si è capito perché Maroni sia salito fin sul Colle, nonostante al Viminale i suoi collaboratori lo avessero avvertito dell’inutilità del decreto. Vero è che il ricorso alla giustizia è una malattia che non risparmia proprio nessuno. Anche Bersani si è infettato. Nella battaglia anti decreto ha messo in campo i suoi avvocati. Bersani, nella vicenda delle liste, si è comportato in modo contraddittorio, dimostrando limiti politici enormi, che per sua fortuna sono rimasti nascosti grazie al pasticciaccio del Pdl. Prima ha dato la propria disponibilità a far partecipare la lista del Pdl alla competizione elettorale, poi si è attivato nell’impedire la presentazione. Dimostrando così un deficit di cultura liberale, la cui forza sta nel garantire a tutti la partecipazione al voto in una situazione di uguaglianza. Nel cahier de doléances, c’è una sfilza di errori e di nomi che hanno causato il calo di gradimento del premier. Nemmeno un terremoto avrebbe creato tante macerie e nemmeno – si fa per dire - Bertolaso riuscirebbe a cavare un ragno dal buco. Ragion per cui bisogna ritornare alla politica con la P maiuscola e al buongoverno. Con la piazza non si fa politica e non si fa il bene del Paese. Con due piazze che si confronteranno tra di loro sul numero dei partecipanti, siamo alla follia. Quale delle due piazze, quella di sinistra o quella di destra, vincerà la sfida? Rassegniamoci, di questo saremo costretti a discutere nell’ultima settimana di campagna elettorale. (l'Opinione)
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