Alcuni ricorderanno, e io sono stato chiamato a risponderne con molta frequenza in incontri pubblici e polemiche, che io inveii contro certi magistrati chiamandoli: «assassini». Nel corso degli anni ho visto rimproverarmi questa invettiva come se l’avessi indirizzata ai due principali simboli dell’azione giudiziaria più determinata e, a mio avviso, spericolata: Di Pietro e Caselli. Loro stessi, credo, oltre al recidivo Travaglio (da me, in più occasioni, inutilmente querelato) si sono considerati innocenti destinatari e vittime della mia aggressione.
In verità delle tante querele che da loro mi sono venute nessuna poteva lamentare questa privilegiata considerazione giacché io, tra le tante critiche, non gli ho mai rivolto questa. Neppure nei momenti più difficili, e duri, come i suicidi di Raul Gardini e di Sergio Moroni, o di quello del povero giudice Lombardini. Fui critico, polemico ma, per quanto in contraddizione con il mio temperamento, prudente.
Dunque in quale occasione mi spinsi fino a quella estrema esclamazione? In un solo caso, terribile e drammatico: la morte di Gabriele Cagliari. Perfino Di Pietro la prese male e parlò di una «sconfitta della nobile e pura azione giudiziaria». Le circostanze di quella incresciosa e tremenda vicenda non possono essere ricondotte al semplice sconforto di chi è costretto in prigione e si vede umiliato per una conclamata colpa ma anche, e soprattutto, alla distanza e indifferenza del potere, discrezionale e incontrastabile, di un pubblico ministero che dispone della tua libertà e della tua vita.
Il pubblico ministero di Gabriele Cagliari si chiamava Fabio De Pasquale e trattenne in galera durante il mese di agosto il suo amministrato sulla base delle conclamate necessità (inquinamento delle prove, reiterazione del reato, pericolo di fuga) della carcerazione preventiva ma anche perché era in ferie.
Anche in questo caso De Pasquale mostrò una personale considerazione del tempo. Un mese in prigione è molto diverso da un mese in vacanza, e le giornate e le ore non passano nello stesso modo. Così De Pasquale ritornò riposato e Cagliari decise di togliersi la vita. Anche nelle recenti vicende del processo Mills, De Pasquale mostra di avere una personale idea del tempo. Così che se oggi il presidente del Consiglio non pare nelle condizioni psicologiche di suicidarsi, certamente nel posticipare i termini del reato attribuito a Berlusconi e a Mills ha ottenuto una condanna, poi annullata dalla Cassazione in questi giorni, che viene ribaltata contro il presidente del Consiglio, ancora non processato (ma già moralmente condannato) che dalla stampa di tutto il mondo viene trattato come un colpevole impunito che cerca di sfuggire alla giustizia.
Davanti alla quale, in virtù della particolarissima visione dell’azione giudiziaria e dei suoi tempi di De Pasquale, Berlusconi non è uguale agli altri cittadini ma è diverso. A lui tocca un trattamento speciale. Per paradosso lo sforzo del Parlamento e degli avvocati di Berlusconi dentro e fuori del Parlamento è di ottenere una sostanziale parità di trattamento. Quella, per esempio, che hanno avuto tutti gli imprenditori italiani da Agnelli a Romiti a De Benedetti, nel corso della loro attività che non è approdata alla politica. Proprio perché Berlusconi ha deciso di fare politica alcuni settori della magistratura hanno inteso contrastarlo con metodi e tempi non applicati a nessun altro cittadino. Da questo è derivata una criminalizzazione della sua attività politica, sostanzialmente diffamatoria e sostenuta con l’apparenza dell’obbligatorietà dell’azione penale, per altri evidentemente non è obbligatoria.
Ora per intendere lo squilibrio e la disparità di trattamento riservati a Berlusconi basta rileggere alcune parti dell’ultima lettera ai familiari di Gabriele Cagliari, che il 20 luglio 1993 si uccide per denunciare l’ingiustizia di cui è vittima, sotto l’apparenza di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza. Cagliari ha ben chiaro di essere stato individuato come un bersaglio per una punizione esemplare in cui è evidente, come nel caso di Berlusconi, la ragione moralistica prima che giudiziaria. Con ogni mezzo occorre individuare il «nemico» e colpirlo: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto... Come dicevo siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. Già oggi i processi e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a malapena conoscono il caso... Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa "giustizia" rischiano di essere capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione... ».
Dopo queste parole Cagliari si uccide, sono passati 17 anni. Il pubblico ministero contro il quale Cagliari compie il suo gesto continua la sua rivoluzione. Con ogni mezzo anche in contrasto con la legge che la Cassazione richiama. Com’è possibile? (il Giornale)
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