mercoledì 27 ottobre 2010

Alla fine di un ciclo. Davide Giacalone

La fabbrica del governo tecnico lavora a pieno regime. Le potenziali alleanze vanno dagli ex fascisti agli ex comunisti, passando per i parlamentari della maggioranza che non hanno nessuna voglia di mettere a rischio il loro posto. La Confindustra di Emma Marcegaglia porta il suo contributo e il tempo si consuma, perché alle viste della sessione europea sui bilanci (aprile prossimo) non ce ne sarà più per regolare i conti politici interni. Il guaio di una simile formula è che nessuno l’ha mai votata. Il che, in democrazia, non è un dettaglio.

Alle crisi di governo gli italiani sono abituati, non se ne crucciano più di tanto. La scelta è, del resto, fra la caducità degli esecutivi e la loro stabilità senza operatività. Due mali. Anche le elezioni anticipate non sono una novità, e se aumenta il numero di quelli che non partecipano ciò si deve a cause diverse dal clima della domenica prescelta. Ma qui si ha l’impressione d’essere arrivati a qualche cosa di più di una crisi o di uno scioglimento. Si ha la sensazione d’essere arrivati alla conclusione di un ciclo, all’agonia della seconda Repubblica, ufficialmente mai nata. E se anche non accadesse nulla, non per questo la sensazione si dissiperebbe. Anzi.

Impensierisce l’idea che possa essere ancora lunga la stagione in cui si crede che il logoramento di Silvio Berlusconi sia il necessario preludio ad un non meglio definito “nuovo”. Stagione prolungata dal fatto che il presidente del Consiglio mostra di temere le elezioni più di quanto non sappia utilizzarle per frenare il disfacimento. Mentre i suoi avversari si comportano come disperati, pronti ad ogni sfregio costituzionale pur di prevalere nei palazzi, non sapendo prevalere nelle urne.

Ci si fermi a riflettere. Lo faccia Berlusconi, chiedendosi per quanto tempo ancora può durare il gioco del cerino, teso a scaricarsi la responsabilità di una legislatura già spezzata. E’ vero che i cittadini sono infastiditi, quando non imbufaliti, ed è vero che lo spettacolo offerto dalla politica e miserrimo. Ma è anche vero che nessuno riesce a credere che possano essere “totalmente leali” al governo forze politiche e uomini che già si preparano a combattersi elettoralmente. Sarebbe grottesco, del resto, che forze e uomini uniti alle scorse elezioni prima vincono, poi danno vita ad un governo, quindi litigano, rompono, lo tengono in piedi artificialmente e infine, al cadere della parabola, si ripresentano alleati alle elezioni.

Certo, la maggioranza ha due problemi contrapposti: la Lega che chiederà un dividendo elettorale più alto e gli elettori che non saranno entusiasti nel rinnovare l’investimento. Ma si guardino attorno: non solo il Paese si sfilaccia, ma le loro stesse forze sono prese dal frazionismo localistico. Assai meno promettente di quello politico.

E guardino la condizione della sinistra, sulla quale i dirigenti di quel fronte dovrebbero, a loro volta, riflettere. Mentre il gradimento del governo cala quello dell’opposizione precipita. Non è logico, ma è così. Crescono, invece, gli sciamannati, quelli da cui nessuno vorrebbe farsi governare, ma che sono ritenuti adatti a svillaneggiare il resto della classe politica. Ci pensino: quindici anni di battaglia antiberlusconiana sono un clamoroso errore, e non per ragioni tattiche, ma perché Berlusconi non è il creatore di quella maggioranza relativa d’italiani, ne è l’interprete. L’errore commesso da chi gli si è opposto, pensando di fregarlo sul piano personale, demonizzandolo (quindi, di converso, santificandolo), è una tale monumentale cavolata che induce a fraintendere la realtà, al punto di credere che cancellare dalla scena lui sarà come togliere il tappo ad uno scarico intasato: miracolosamente tutto torna sereno e funzionante. Non è così, anzi è ragionevole supporre che senza quel suo interprete l’Italia che lo vota, e che non ha mai smesso, dal 1994 in poi, d’essere la maggioranza relativa, si frantumerà e sparpaglierà, frantumando e sparpagliando anche l’opposizione. Dopo di che sarà veramente a rischio il tessuto nazionale.

Il realismo politico dovrebbe far capire che per rimettere in moto l’Italia non si può prescindere da chi coagula la maggioranza dei consensi. Se, invece, ci si abbandona agli estremismi, se si crede sul serio che si possa cancellare un simile soggetto, allora va bene latrare appresso alle questioni giudiziarie o insultare gli osservatori che non si piegano ai luoghi comuni dell’antiberlusconismo. Ma è una condotta suicida.

Non sto dicendo alla sinistra di dichiararsi sconfitta (quale è), suggerisco l’esatto contrario: se volete sperare di vincere non potete che riconoscere la forza dell’Italia che lo vota e con quella puntare ad un sistema diverso. Se non ne saranno capaci, se continueranno a dare le dimissioni dalla politica sperando che qualcun altro (il “cerchio sovrastrutturale”?!) crei le condizioni per la loro vittoria, finiranno totalmente preda delle serpi che si sono allevate in seno. Stacchino Antonio Gramsci dalle pareti, e lo leggano. Studino la cinica, ma realistica lezione di Palmiro Togliatti. Almeno Tony Blair si sforzino d’ascoltarlo, nella versione pop e televisiva: ci vogliono idee politiche, per battere l’avversario.

Stiano attenti, tutti: le cucine di palazzo son trafficate dai sorci e c’è un’aria per cui i piatti potrebbero volare.

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