La settimana scorsa il governo ha incassato due volte la fiducia, riallineando le varie forze e personalità che lo compongono. Appena chiuso il sipario parlamentare il presidente del Consiglio è tornato a parlare del deragliamento costituzionale, con la sovranità passata dalle mani del popolo a quelle delle procure. Il presidente della Camera s’è collocato sul fronte opposto, negando che alcuna riforma sarà mai fatta se indirizzata contro i magistrati. Due giorni per riottenere la fiducia, altri due per risfasciarla.
A essere ipocriti si può sostenere che la contrapposizione non esiste, dato che le riforme devono essere fatte per una migliore giustizia e non contro i pubblici ministeri. Ma son solo gargarismi, perché se questo è il passo di partenza sappiamo tutti che non si va da nessuna parte. E’ evidente che la giustizia, per funzionare, ha bisogno dei magistrati, il cui ruolo è irrinunciabile e insostituibile. Ma sappiamo altrettanto bene che le deviazioni sono state numerose e frequenti, al punto da doversi accorgere che quel corpo è malato, nel profondo. Vorrei fare osservare, tanto per dirne una, che dopo l’attentato alla procura di Reggio Calabria, il 3 gennaio scorso, un po’ tutti scrissero le solite banalità, del tipo: la ‘ndrangheta contro la procura determinata e onesta. Osservai, allora, che il bombolone era solo un avvertimento e che chi lo aveva piazzato, badando bene di non far male a nessuno, stava dialogando con qualcuno dentro al palazzo. Pare che le cose stiano così e che i delinquenti avessero da lamentare la rimozione di un pubblico ministero, su cui facevano affidamento. Ebbene, sapete dov’è questo signore? Trasferito, per “incompatibilità ambientale”, amministra giustizia presso la Corte d’appello di Roma. Ma vi pare sensato? E che deve fare per essere buttato fuori?
Le parole di Silvio Berlusconi, ripetute a Milano, offriranno materia per le solite reazioni scandalizzate: ha attaccato la Corte Costituzionale e l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Lo dico subito: ha ragione. Non condivido la definizione della Corte come accolita di giudici sinistri, men che meno nella versione pulp: “comunisti”. Ma la sentenza con cui si abrogò la legge Pecorella, la giustissima norma con la quale si stabiliva di non continuare a processare un cittadino assolto per quel medesimo reato, fu una vergogna. Che porta la firma di un giudice, Giovanni Maria Flick, che fu ministro della sinistra e poi presidente della Corte per pochi giorni. Inutile a tutti se non alla sua scandalosa prosopopea. Aggiungo: pronto, lui e i suoi colleghi, a violare la Costituzione per il proprio tornaconto. E questi sono fatti.
Come lo è la condotta di Scalfaro, che pensò di riuscire a svellere il verdetto elettorale organizzando la caduta di Berlusconi, così impostando una politica destinata ad essere la tomba della sinistra seria e di governo (lui, del resto, come i tanti necrofori che la sinistra si porta appresso, è un uomo di destra).
Il punto debole della posizione berlusconiana non sta nel fatto che svillaneggia questi altari sconsacrati, ma nel non essere capace di porre rimedio. La riforma della giustizia non è un compito popolare, ma della maggioranza parlamentare. Le parole di Fini non si prestano ad equivoci, ed è evidente che quella è la spianata, appena fuori dal saloon, sulla quale avverrà il duello. Visto che non serve a nulla rimandarlo, meglio affrontarlo. Il governo presenti subito la sua proposta: una, complessiva, rivoluzionaria. Se su quella cadrà, almeno, gli italiani sapranno il perché. E si regoleranno di conseguenza.
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