A regolare l’equilibrio fra economia e politica ci sono, oggi, due addizioni. Per comprendere la ritrovata sintonia fra il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia, come la convergenza con la mini riforma dei trattati europei, occorre valutare quelle due operazioni aritmetiche. Si potrebbe dire, con il principe de Curtis: è la somma che fa il totale.
La prima addizione riguarda gli addendi della disoccupazione. La percentuale d’italiani che cercano lavoro e non lo trovano è dell’8,5. Un risultato che il governo sbandiera come positivo, visto che è al di sotto della media europea. La Banca d’Italia, però ha messo in fila altri addendi, spiegando che questa è la condotta seguita in Europa: i disoccupati, più i cassintegrati, più gli scoraggiati. Quindi non solo chi cerca lavoro e non lo trova, ma anche chi aveva un lavoro e oggi riceve un sussidio per non lavorare, cui si aggiungono quanti neanche lo cercano più, avendo perso la speranza. E si arriva all’11%. Come la Francia, meno del Regno Unito, più della Germania, ma addio al risultato inferiore alla media eruopea. Il governo reagì bruscamente, definendo “ansiogeni” quei dati. Noi criticammo la reazione, perché non ha molto senso prendersela con i numeri. Semmai è nella composizione della somma che si deve cercare la via d’uscita. E’ vero, infatti, che gli ammortizzatori sociali hanno funzionato, ma è anche vero che non possiamo permetterci di ballarci sopra ancora a lungo senza scassarli, o senza farne ricadere il costo sulla fiscalità generale (e da qui si va alla seconda addizione, ci arrivo).
Il barometro segnava burrasca, nei rapporti fra governo e Banca d’Italia. Ma somigliava alla tempesta in un bicchier d’acqua. E lo scrivemmo. Ora Giulio Tremonti ha rimesso le cose in ordine: quella somma è del tutto legittima, piuttosto si dovranno considerare anche altri elementi, come i posti di lavoro che l’artigianato offre e nessuno copre. Si dovrà mettere nel conto anche il lavoro nero, aggiungo. Ma più si vuol allungare la lista degli addendi più cresce l’elenco delle riforme strutturali da farsi, da quella dell’istruzione a quella fiscale. E questo è un tema politico, non contabile.
La pace fra governo e Banca d’Italia ha sullo sfondo l’appuntamento europeo per la verifica dei conti nazionali. Scadenza delicata e rilevantissima, cui i giornali, colpevolmente, annettono meno importanza che alle divagazioni tribali. Dobbiamo arrivarci con un governo nella pienezza dei suoi poteri e con la massima compattezza nazionale, altrimenti saranno dolori. Eccoci alla seconda addizione.
Al vertice europeo di Bruxelles si è varata una mini riforma dei trattati. Una cosa assai più blanda di quella che avrebbe voluto l’asse franco-tedesco, e che per noi sarebbe stata rischiosa. La partita non è conclusa, e l’aria che tira è piuttosto gelida. La riforma consiste nell’istituzione di un Fondo permanente, destinato ad aiutare chi, dei 27 Stati membri, si trovi in difficoltà finanziaria. Tedeschi e francesi, ma prevalentemente i primi, i più forti, avrebbero voluto che alla generosità (animata dall’egoismo di difendere anche se stessi) si accompagnasse la punizione: chi chiede aiuto perde il diritto di voto. Una proposta ruvida, ma non priva di ragionevolezza, visto che chi è sano dovrà continuare a seguire decisioni prese con il voto dei malati. Angela Merkel aveva chiesto di equiparare il non rispetto dei parametri di stabilità alla violazione dei principi fondamentali dell’Unione. Come a dire che l’economia deve avere lo stesso peso dei sacri pilastri. Vista la condizione dei mercati e il rischio connesso al finanziamento dei debiti nazionali, non si può sostenere che il pilastro economico sia secondario.
Per noi italiani è un guaio, visto che il nostro debito è, rispetto al prodotto interno lordo, il doppio del consentito. Ci siamo salvati grazie al fatto che una simile riforma deve passare con il consenso di tutti, il che equivale a fissare la pasqua con il consenso degli agnelli. Ma non può durare, ed è questa la ragione per cui il governo punta molto sulla somma fra debito pubblico e debito privato, il che ci riporta in equilibrio con gli altri, che pretendono (non a torto) di darci lezioni.
L’addizione della Banca d’Italia era lecita, lo è anche questa? Dal punto di vista dell’equilibrio finanziario sì, sotto altri aspetti no. L’idea che siano le famiglie a garantire per lo Stato può essere considerata suggestiva, come anche grottesca. Sta di fatto che ci conviene, che è la nostra ancora di salvezza, quindi è bene sincronizzare le calcolatrici nazionali. Quella della nostra banca centrale è autorevole, quindi meglio averla amica, anche se certi suoi risultati possono irritare.
Le due addizioni sono la forma contabile della sostanza politica. All’interno servono per non lasciare intendere che noi si stia meglio di altri, impedendo che ci si adagi su inesistenti allori. All’esterno per impedire l’istituzione di sanzioni automatiche, che darebbero al 2011 il colore di un anno doloroso. Su tutto, in ogni caso, grava il peso di un increscioso ritardo nel rimettere l’Italia in grado di scalare le classifiche della produttività, mentre oggi è inchiodata alla parete, con le mani rattrappite e la paura di guardare la realtà.
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