Nei giorni scorsi si è venuto a sapere di una vicenda grave, assai grave, che rischia di passare sotto silenzio. Giuseppe Conso, già ministro per la giustizia del Governo Ciampi, ha nei giorni scorsi candidamente dichiarato davanti ad una commissione parlamentare, di aver deciso – in segreto ed in splendida solitudine – nel 1993 di adottare un provvedimento di revoca del regime di carcere duro (il cosiddetto 41 bis) per alcuni pericolosi mafiosi. Si è venuto dopo a sapere che si trattò di due decreti, adottati nei mesi di maggio e di novembre 1993, relativi a 280 (!!) pericolosi mafiosi. L’ex ministro ha affermato che la decisione era motivata dall’esigenza di ridurre la durezza dell’offensiva della criminalità organizzata che proprio in quel periodo aveva inaugurato la stagione delle stragi di mafia. Successivamente sono emersi altri dettagli inquietanti.
Della questione se ne discuteva già da alcuni mesi. Vi era stata sul punto una riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza, vi era stato un documento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che prospettava due possibili soluzioni: lasciare scadere i provvedimenti di 41 bis in essere senza rinnovarli o revocarli (ed esprimeva una netta preferenza per la prima ipotesi). E’ quindi falso che Conso assunse da solo la decisione. E’ a questo punto presumibile che anche altri vertici delle istituzioni (il ministro dell’interno, Mancino, il Presidente del Consiglio, Ciampi, il Presidente della Repubblica, Scalfaro?) fossero quanto meno stati informati. Amato, all’epoca capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel citato documento dice che in sede di Comitato per la sicurezza fu il capo della polizia, Vincenzo Parisi, a esprimere una forte sollecitazione alla revoca del 41 bis con riferimento alle carceri di Secondigliano e di Poggioreale. E’ possibile che Parisi non abbia concordato la propria posizione con il Ministro dell’interno? Possibile che non abbia informato il Presidente Scalfaro a cui è molto legato?
La vicenda è incredibile. L’idea che per ammorbidire la mafia sia opportuno alleggerire le condizioni carcerarie dei mafiosi è assurda. Il regime del 41 bis fu pensato non come misura afflittiva supplementare, ma essenzialmente come strumento per impedire ai boss della criminalità organizzata di poter continuare a dirigere le proprie organizzazioni anche dal carcere. Revocare tale regime produceva l’unico effetto di aumentare la capacità operativa delle organizzazioni criminali e quindi di pregiudicare l’efficacia della lotta alla mafia. Quando poi tale scelta era stata posta come condizione dalla mafia allo Stato per far cessare le stragi, assumere tale decisioni era né più né meno che una resa dello Stato. Non siamo talebani della giustizia e della legalità. Riusciamo anche a comprendere che in condizioni estreme, quando è in pericolo di vita, lo Stato possa fianco accedere ad una trattativa con la criminalità (comune o politica che sia). Ma è chiaro che si deve trattare di condizioni estreme. Ed in ogni caso, una decisione del genere, una decisione che implica una (parziale) abdicazione dello Stato alla propria sovranità, una decisione che equivale alla cessione ad un ricatto, non può essere assunta nel segreto delle stanze di un Ministero o, addirittura, come pretende di aver fatto conso nel foro interno della coscienza di un Ministro.
Ma, al di là del merito, la cosa più incredibile è che proprio nel momento in cui il Paese è afflitto dai predicozzi settimanali contro la mafia del prode Saviano, proprio nel momento in cui ci balocchiamo da mesi con le rivelazioni del presunto pentito Spatuzza, nel momento in cui ogni starnuto di Ciancimino jr. diventa notizia da prima pagina, nel momento in cui sappiamo tutto dei perversi legami fra Dell’Utri e Mangano, lo stalliere di Arcore, nel momento in cui tutti ci interroghiamo sul mitico papello nel quale i boss di Cosa Nostra avanzavano le proprie richieste allo Stato (fra le quali i primo piano vi sarebbe stata proprio la revoca del 41 bis).
Ebbene proprio in questo momento, emerge per dichiarazione diretta di uno dei protagonisti dell’epoca, che vi fu una consapevole scelta del Governo di alleggerire il regime carcerario dei mafiosi assicurati alle patrie galere proprio per far giungere a più miti propositi le organizzazioni criminali, … e non succede nulla. Ci saremmo aspettati mozioni parlamentari, commissioni di inchiesta, durissime prese di posizione di Italo Bocchino, novello difensore della legalità democratica, manifestazioni di piazza, titoloni a tutta pagina sugli organi ufficiali dell'infomazione politicamente corretta, trasmissioni non stop della coppia Santoro – Travaglio, elaborazioni culturali della coppia Fazio – Saviano, reportage di fuoco della Gabbanelli. Ma evidentemente i fatti del 1993 narrati da Conso non sono di gradimento dei “professionisti dell’antimafia”. Sono fatti del tutto inservibili per una strategia politica immediata. Sono fatti che tirano pesantemente in ballo alcune delle icone della politica democraticamente corretta del Paese, e soprattutto fatti che non possono essere in alcun modo utilizzati per colpire il nemico di classe (ovvero Silvio Berlusconi). Con le dichiarazioni di Conso non solo crolla il teorema secondo cui Forza Italia sarebbe nata proprio nel 1993 da un patto scellerato fra Berlusconi e la mafia, ma emerge che il patto effettivamente forse ci fu ma fu stipulato dai paladini della democrazia, dai cantori della Costituzione, dagli arcangeli della legalità. E tanto evidentemente basta ai parolai della lotta alla mafia per mettere la sordina sulla vicenda. (l'Occidentale)
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