Nessuno s’illuda che i guai irlandesi possano restarsene a Dublino. Nessuno creda che salvata l’isola si sarà salvato l’euro, perché è arrivato al pettine il nodo della moneta unica senza unità federale e governo centrale alle spalle. Se garantiamo i debiti sovrani allora dobbiamo renderli federali, quindi europei. Ma se lo facciamo non possiamo consentire politiche diverse, diversi welfare e concorrenza fiscale.
Il calendario politico italiano punta alla metà di dicembre, quando in Europa si sarà dovuto risolvere, o sarà giunto alla rottura il difficile dilemma del debito e degli Stati fallimentari. La politica nostrana non se ne interessa, tanto è vero che il governo presenta una finanziaria e l’opposizione (comprendente parlamentari della maggioranza) ne suggerisce l’immediata approvazione, in modo da potersi occupare d’altre menate. Un tema irrilevante, in un Paese che anziché guardare all’orrizzonte sbricia sotto le gonne. Così continuando saremo guidati non dal papa straniero, evocato da una sinistra in crisi di vocazioni, ma dalla finanza straniera.
Sintetizzo il dilemma, scusandomi per la semplificazione, ma ritenendo giusto che tutti possano ragionarci: ci sono Stati europei che dovrebbero spendere troppo, impoverendosi, per non fallire, ma se fallissero porterebbero alla rovina l’euro, nonché le banche degli altri. Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna già pagano alti tassi d’interesse sul loro debito pubblico, ma anche noi italiani non scherziamo (la differenza rispetto al costo del debito tedesco, lo spread sul bund, ha toccato 1,91 punti, così come era assai cresciuto il costo dei derivati con cui si assicurano i debiti, credit default swap, il tutto mentre in Italia si discettava ad alta voce sull’ingiustizia dei tagli alla spesa pubblica). I tassi sul debito sono il riflesso della valutazione di un rischio: più si ritiene che uno Stato possa fallire più ci si fa pagare per prestargli soldi. Di converso: meno quello Stato fallisce realmente, più chi ha prestato soldi guadagna. Se arriva il fondo europeo di salvataggio e assicura che nessuno può fallire ottiene un duplice risultato: stabilizza la situazione politica, e con quella l’euro, ma consente arricchimenti facili e non rischiosi a chi specula sulla differenza dei tassi d’interesse.
Qualora, però, quei salvataggi venissero esclusi il risultato sarebbe la dichiarazione d’insolvenza e il crollo dell’euro. Dato che i titoli di quei debiti diventerebbero carta straccia, e dato che sono nei forzieri di tutte le banche europee, sarebbe come innescare una gigantesca bancarotta a catena. Dalla quale non si salverebbero neanche i tedeschi.
Angela Merkel assicura assistenza, per niente disinteressata, ma chiede rigore assoluto nei conti dei disastrati. Ha ragione, ma fino ad un certo punto. Così procedendo, difatti, chi è nei guai verrà mantenuto nel mobilissimo club dell’euro, ma strangolato progressivamente. E dato che si tratta di democrazie, è ragionevole che le rispettive opinioni pubbliche comincerebbero a chiedersi: e se ce ne andassimo, da tanto blasonato consesso? Riavremmo una moneta nazionale, la svaluterremmo, ci beccheremmo l’inflazione ma torneremmo a galleggiare.
Venendo a noi italiani: abbiamo un deficit fra i più virtuosi d’Europa, secondo (in virtù risparmiosa) solo alla Germania, ma mentre i tedeschi lo hanno appena fatto crescere, di ben due punti, noi l’abbiamo mantenuto uguale a quello dell’anno scorso. Siamo più bravi dei tedeschi, quindi. Ma loro vedono crescere il loro prodotto interno al doppio della media europea e noi alla metà. C’impoveriamo progressivamente, pertanto, e paghiamo tassi più alti a causa dell’enorme debito pregresso, non significativamente comprimibile nel breve (a meno che non si mettano nel conto vendite di patrimonio pubblico e tasse su quello privato). Mentre c’impoveriamo paghiamo tasse più altre degli altri. In queste condizioni si viaggia verso la rivolta contro l’euro, e non è un caso che un economista serio, nonché politicamente saggio, Paolo Savona, ne parli a voce alta.
La questione è così grave e complicata che perfino il mite Van Rompuy, miracolato ed etereo presidente dell’Unione Europea, avverte che su una roba simile salta tutto. Una soluzione c’è: il debito deve essere progressivamente spostato da nazionale a federale, nel senso di europeo, in modo che i tassi si compensino. Ma questo presuppone che l’Unione non sia un pallone aerostatico, manovrato da sconosciuti, bensì una vera organizzazione federale, politicamente votabile e indirizzabile. L’alternativa, se non si vuole rassegnarsi all’impoverimento prima e alla decomposizione poi, consiste nello smontare l’euro, restringendone bruscamente l’area.
Non è roba per cenacoli d’economisti, bensì la sostanza di una scelta politica. Sempre che la politica non sia fuori in cortile, tutta presa a vituperarsi.
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