Che cosa è successo? Sono intervenuti almeno tre fenomeni: l’aumento delle accise di 0,73 centesimi (saranno 0,92 dopo il 1° luglio), l’“effetto Libia” sul greggio e il rafforzamento del dollaro. Se si tiene conto di questi fattori, gli andamenti italiani non sono anomali, come ha evidenziato l’Unione petrolifera. Se, però, la variazione dei prezzi è “normale”, è anomalo il loro livello. In Italia, infatti, fare il pieno costa di più. Come è possibile? Per avere la risposta, bisogna distogliere lo sguardo dagli elementi congiunturali e concentrarsi su quelli strutturali. A partire dal fisco.
Ai prezzi di ieri, secondo Eurostat, gli automobilisti italiani pagano 83,6 centesimi di tasse per ogni litro di benzina, e 67,6 per il gasolio: peggio di noi Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Grecia e Portogallo, tutti paesi (tranne gli ultimi due) con un reddito pro capite ben più alto. L’elevata tassazione ha un effetto perverso: non solo contribuisce ad alzare l’asticella, ma amplifica le oscillazioni verso l’alto perché l’Iva (Imposta sul valore aggiunto) aggiunge il 20 per cento tanto alle accise, quanto al prezzo industriale. Quest’ultimo deve remunerare anzitutto la materia prima, che non è il greggio ma lo specifico prodotto (benzina o gasolio).
Poi ci sono i vari costi di distribuzione e stoccaggio e, infine, i margini netti di compagnie e gestori. In Gran Bretagna, il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha tagliato le unghie al fisco: per rispondere al rialzo petrolifero, ha cancellato l’aumento delle accise di 4 pence – inizialmente previsto per aprile – e le ha ulteriormente ridotte di uno. (Mettendo su tra l’altro uno “stabilizzatore strutturale” del prezzo della benzina per il futuro).
Come è stato possibile, dati i vincoli di finanza pubblica? Semplice: il Regno Unito è un paese produttore di petrolio, quindi si aspetta di recuperare il mancato gettito con l’aumento dei tributi pagati dalle compagnie petrolifere che estraggono petrolio e gas nel Mare del nord. Aumento, è bene specificarlo, del gettito, non delle aliquote, dovuto semplicemente al maggior valore del barile.
Oltre al fisco, in Italia pesa l’insufficiente liberalizzazione. La Francia è riuscita a combattere l’inflazione petrolifera grazie all’ingresso massiccio della grande distribuzione, che ha una quota di mercato di quasi il 52 per cento. Grazie a una rete con meno impianti (solo 2,68 ogni 100 chilometri quadrati, contro i nostri 7,27) e un erogato medio molto più voluminoso (3,6 milioni di litri all’anno, da noi sono la metà) il paese transalpino ha creato un suo modello di efficienza.
Altri paesi, pur senza una grande distribuzione così ingombrante, hanno ottenuto risultati simili consentendo una migliore organizzazione attraverso l’ingresso di nuovi soggetti e la chiusura degli impianti troppo piccoli.
In un’indagine dell’Istituto Bruno Leoni relativa al primo semestre 2010, è stato certificato che la presenza delle pompe nei supermercati in Italia può indurre riduzioni anche nei distributori circostanti, con un potenziale risparmio di quasi 200 milioni di euro all’anno.
Il problema di fondo, però, sta nel guardare il dito anziché la luna: se i prezzi aumentano ovunque, aumenteranno pure in Italia. Ma non dovrebbero essere sistematicamente più alti. Anche qui, l’efficienza è figlia della concorrenza.
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