Mauro Mellini, ex parlamentare dalla storica militanza radicale, non è sorpreso dalle rivelazioni con cui il pentito Giovanni Brusca, ieri, ha accusato di collusione con la mafia praticamente tutta la classe politica. Le denunce all’ingrosso dell’ex mafioso non hanno risparmiato quasi nessuno: “Nel ’92, Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti”, ha detto Brusca, secondo il quale “Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino volevano portare a Riina la Lega nord e un altro soggetto politico che non ricordo”.
La foga inquisitoria di Brusca, secondo Mellini, è figlia di una logica innescata dalle procure: “Il cosiddetto ‘pentitismo’ nasce dall’abuso dei magistrati, che assicurano ai mafiosi premi che la legge non prevede, in cambio delle loro rivelazioni. I magistrati dicono: ‘Trattiamo noi con i mafiosi arrestati’, e usano come prova anche quello che potrebbe essere al massimo un indirizzo per dare una direzione alle indagini”. Secondo Mellini, una delle assurdità del nostro codice di procedura penale è il principio in base al quale il pubblico ministero indaga non perché viene a sapere di un reato, ma alla ricerca di notizie di reato. “Così il pubblico ministero, che ormai è una sorta di ‘magistrato poliziotto’, a forza di indagare sulle ipotesi di reato e di usare i pentiti come mezzi di prova, li istiga a rendere le loro confessioni sempre più clamorose – dice Mellini – Brusca, che si è pentito dopo aver sciolto un ragazzino nell’acido, deve dimostrare di essere un superpentito ai pm che gli chiedono: ‘Ma come, non sai niente?’”. “Quando è scoppiato il caso Tortora non c’era la legge premiale – ricorda Mellini – però i magistrati trovavano comunque il modo di gratificare i pentiti: ‘Vieni qua, dicci qualcosa, al massimo se non possiamo assolvere te assolviamo tuo fratello…’”. Il pentito, che viene premiato in proporzione al materiale che offre a chi conduce le indagini, si ritrova nel mezzo di un vero e proprio corteggiamento: stuzzica, svela dei contorni quando serve, gioca di malizia, valuta se è meglio condurre o lasciarsi guidare. Per capire che qualcosa non va basterebbe sfogliare i verbali degli interrogatori dei pm Antonio Ingroia e Anonino Di Matteo a Ciancimino Jr.: “La lettura dei verbali è sconcertante – dice Mellini – Questo Massimo Ciancimino non dice mai niente, parla sempre per induzione da parte del pubblico ministero”.
Insomma, per Mellini, che all’epoca della “trattativa” era alla Camera dei deputati, c’è qualcuno in Italia che ha trattato di sicuro con i mafiosi: i magistrati. Le grandi manovre che Ciancimino Jr. imputa allo stato sono state paradossalmente più goffe: “Se si fanno le trattative bisogna sapere qual è la situazione, dove si può arrivare e che cosa si intende ottenere – dice Mellini – Questi che vengono accusati di avere condotto trattative con la mafia, se le hanno fatte, le hanno fatte a vuoto, dando soltanto un’impressione di debolezza”.
Mellini però sottolinea: “Quello che ho dato è un giudizio politico sul loro operato. Lo stato ha comunque tutto il diritto di trattare con chi gli pare e piace, se è lo stato. Se poi invece erano il generale Mori o chi per lui ad agire per i cavoli loro allora è un altro discorso. Ma quando i magistrati dicono che era lo stato a trattare, significa che riconoscono che questi soggetti trattavano per lo stato nella sua globalità, che avevano il diritto di rappresentare lo stato”. Per i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che indagano sui presunti mandanti delle stragi di mafia, se lo stato ha trattato con i mafiosi, va processato. La fattispecie non esiste, ma Mellini, con un’acrobazia giuridica, se l’è inventata: “Sarebbe ‘concorso esterno precontrattuale in associazione di stampo mafioso’, o, se preferiamo, ‘tentata amnistia’”. Mellini ricorda di aver visto prendere piede nelle procure degli anni Settanta – soprattutto in quelle calabresi, con cui aveva più familiarità – una cultura per cui “noi siamo gli avamposti della legalità” e “lo stato ci ha abbandonato, è un traditore”. E così, “nel tempo, lentamente, gli atti di elaborazione concettuale di Magistratura democratica sono passati nella magistratura corporativa e ora che la politica prova a tirare le briglie che ha lasciato a lungo sciolte, il cavallo della magistratura si imbizzarrisce”. E reagisce, “non ritenendosi più un pezzo dello stato, ma espressione ormai di un qualcosa che sta sopra al potere temporale, come gli ulema nello stato islamico. Sono un’aristocrazia dotata di un potere carismatico, che per definizione non è elettivo: si acquista col concorso di uditore giudiziario”. In questa logica, “la misura della validità di quello che dice Brusca non è più la ragionevolezza o il diritto, ma è l’etica golpista del partito della magistratura: abbiamo individuato i grandi signori del male, tra i quali c’è Berlusconi. Ora dobbiamo colpirli”.
Guarda la puntata di Qui Radio Londra La scandalosa gestione dei pentiti in Italia (il Foglio)
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